Kiss The Future recensione documentario di Nenad Cicin-Sain con Bono, The Edge, Adam Clayton, Howie B, Enes Zlatar, Senad Zaimovic e Alma Catal [RoFF18]
La guerra è il motore del mondo. Lo è sempre stato. La storia, la nostra storia è marchiata da conflitti armati, devastazioni, epurazioni, conquiste, persecuzioni.
Una delle cose che riesce meglio al genere umano è annientarsi con le proprie mani. Non è semplicemente selezione naturale, cerchio della vita o inevitabilità. La capacità cognitiva dell’uomo, la sua facoltà di scelta, di creare ideali e combatterli con i propri simili è la lama della ghigliottina pronta a calare, inarrestabile, sul collo del genere umano.
“La guerra purifica”, era ciò che i sostenitori del pensiero bellico sostenevano con ardore all’inizio del secolo scorso. Ed ecco la purificazione: due conflitti mondiali, deportazioni ed stermini di massa senza freni per più di un ventennio, due bombe atomiche, una frattura bipolare che riverbera tutt’oggi, crisi sociali senza precedenti.
Dobbiamo considerare esaurito quel processo di purificazione o è ancora in corso? E, in tal caso, quando potrà essere considerato concluso? Perché il mondo sembra tutto fuorché purificato.
Non bisogna neanche guardare troppo lontano per accorgerci che poco è cambiato. Della guerra si legge sui libri di storia, sembra lontana nel tempo, così distante da non spaventare più di tanto, nonostante non sia mai esistito un mondo interamente in pace nello stesso identico momento, senza alcun conflitto lacerante a scandirne il suo percorso sulla linea del tempo.
Chi è nato sul finire del millennio non ha memoria diretta della brutale guerra civile che si è consumata in quella che era la Jugoslavia. Ne ha sempre e solo letto sui libri di storia; non è mai stata nulla più che qualche parola accennata e una manciata di immagini.
La visione di un documentario come Kiss The Future, di conseguenza, colpisce in maniera differente a seconda delle persone. Lo spettatore si trova davanti a immagini di repertorio crude e violente, che non lasciano spazio al dubbio. Vengono mostrati bambini che giocano, che sorridono tra le macerie, che provano a trovare una normalità in quella visione così anomala della vita e ci rendiamo conto che non sono così lontani nel tempo come la nostra mente ci illude che siano.
Quei bambini, oggi, non hanno più di quarant’anni, non sono tanto più grandi di noi. Quella guerra, quell’orrore, ci ha solo sfiorato. È vicina come un’ombra quando la luna è allo zenit.
Non è la seconda guerra punica, ma non è neanche il Vietnam, comunque più distante dalla nostra generazione. Quei volti, che associamo così velocemente a ricordi ed echi del passato, si trovano oggi, perlopiù, solo a metà del loro cammino esistenziale. E, allora, ci chiediamo come si faccia ad andare avanti quando tutto sembra perduto.
Ecco, queste sono questioni che si pone Nenad Cicin-Sain, autore di questo documentario inusuale, che non esplora il conflitto in quanto tale, ma il modo in cui i veri protagonisti hanno sopportato quell’efferata guerra: le persone comuni, quelle che sono riuscite a sopravvivere, anche mentalmente, a quattro anni di assedio nella città di Sarajevo.
Cicin-Sain ha raccolto molte testimonianze da chi, durante quel conflitto, ha provato a sollevare il morale delle persone e a portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale quanto stesse accadendo in quel territorio dimenticato da Dio (eppure così vicino a tutto quello che, a detta dei suoi fervidi sostenitori, aveva benedetto, con la sua mano impositrice sulla fronte del mondo occidentale).
Quando non c’è nulla più che il rumore delle bombe a scandire le giornate, non si può fare altro che creare altro rumore, forza oppositrice per eccellenza. Così la musica diventa la protagonista di ogni sventura dell’uomo, anche di quella consumatasi a Sarajevo.
La musica è stata l’arma nelle mani del popolo, quella con cui hanno potuto meglio difendersi dal tiro dei cecchini. La comunità internazionale si è stretta attorno alla città dimenticata di Sarajevo grazie, soprattutto, a una delle band più famose del tempo, gli U2.
Non a caso, il tempo a loro dedicato nel documentario è ampio; ma non ci è sembrato un modo di dire “guarda quanto sono stati bravi questi ragazzi dublinesi”. Tutt’alto.
Il concerto che hanno organizzato nella città, appena lasciata dalla morsa del conquistatore Milošević, ha rappresentato l’effettiva conclusione della guerra, la vera firma del trattato di pace.
La musica come forma ultima di liberazione, urlata da 45.000 voci, sparata con la forza dirompente dei decibel nel cielo, che per anni non ha fatto altro che ascoltare la ritmica e martellante deflagrazione della canzone bellica.
Il concerto finale è una emancipazione e, come tale, ha liberato chi scrive dal peso della consapevolezza della vicinanza storica di questa ecatombe. Perché la nostra storia è scolpita dalla guerra, non dal conflitto in quanto tale, quanto dai moti di resistenza che si oppongono all’eterna opera dell’autodistruzione umana. Un altro giorno, magari. Oggi gridiamo alla luna e baciamo il futuro. Perché tutto è possibile, domani.