L’angelo del male – Brighburn: la recensione del film di David Yarovesky con Jackson A. Dunn, Elizabeth Banks, David Denman e Matt Jones
Se una navicella aliena precipitasse nella tua fattoria rivelando la presenza di un bambino cosa faresti? No, non si sta parlando del Kal-El inventato nel secolo scorso da Jerry Siegel e Joe Shuster e destinato a diventare uno dei supereroi per antonomasia. Nel caso de L’angelo del male – Brightburn il bambino venuto dallo spazio è sicuramente super ma non certo un eroe, più una macchina di distruzione letale senza scrupoli.
Nella figura del piccolo Brandon Breyer, interpretato da Jackson A. Dunn, c’è il ribaltamento dell’uomo volante con il mantello che, nonostante l’amore offerto dall’essere umano, scopre la sua natura e compie il suo destino malvagio. Indossare una maschera grezza, un mantello sgualcito e sparare raggi mortiferi dagli occhi per una volta si trasformano da speranza di salvezza a ineluttabile sentenza di morte.
Probabilmente questa recensione potrebbe terminare anche qui. Non c’è nessun piacere della scoperta in Brightburn. Fin dalle prime battute, fin dall’acquisto del biglietto e forse già nel momento in cui si sceglie di guardare un superhero horror siamo consapevoli di stare andando incontro ad una probabile carneficina. Se la paura scaturisce soltanto dal quando questa avverrà, il coefficiente di efficacia crolla inevitabilmente.
Seguire la presa di coscienza del male attraverso l’ingenuità dell’uomo è straziante oltre che interminabile. Non c’è spessore nello sprofondare progressivo nel dramma dei protagonisti coinvolti nè sembra che ci siano chiavi di lettura interessanti che lo rendano significativo. In una storia con protagonisti dei supereroi, piaccia o meno, il lieto fine arriva sempre dopo il punto di maggior squilibrio tra bene e male in favore del secondo. In questo caso, il regista David Yarovesky ci accompagna semplicemente nella fruizione di una serie di step posizionati per dare una sorta di climax alla storia. Il più antico ed economico degli espedienti narrativi, l’amore, non bilancia, non aggiunge nulla alla storia se non una fastidiosa ingenuità con cui è difficile relazionarsi.
Sarebbe stato interessante dare uno sfondo psicologico all’intera storia, magari dando spessore alla incapacità dell’umano di processare qualcosa che va oltre la sua normale comprensione o fornendo una critica velata ad un immaginario in cui la presenza supereroistica è estremamente inflazionata. Dopo lo spunto tagliente, il tema che viene svolto è uguale al compitino eseguito per rimanere nei ranghi senza averne esplorato bene le potenzialità.
Il voto che ne consegue, poi, è pari al numero effettivo di balzi sulla sedia derivati dalla paura vera nata dall’incontro di musica ed immagini.