L’apparenza delle cose recensione film di Shari Springer Berman e Robert Pulcini con Amanda Seyfried, James Norton, Natalia Dyer e Karen Allen
“Ciò che è certo è che le cose del cielo sono più reali di quelle che esistono al mondo”. Con questa frase del filosofo scandinavo e padre dello spiritismo Emanuel Swedenborg, il film Netflix L’apparenza delle cose si schiude nero su bianco al suo enigmatico inizio per poi, lentamente, accompagnarci tra i banchi di un’aula di un college, dove scorrono lente le immagini di alcuni quadri dei pittori paesaggisti George Inness e Thomas Cole: architetture, monumenti e natura dell’America dell’Ottocento si materializzano dalla luce di un proiettore. Si potrebbe pensare allora che quello a cui si sta per assistere sia un film sull’arte, o sullo studio delle Belle Arti nelle università; ma le prime venature horror non tardano ad arrivare e delle gocce di sangue che colano da alcuni masselli in legno di un soffitto introducono l’epilogo di una storia di matrimonio e di fantasmi.
L’apparenza delle cose: la sinossi
Catherine Clare (Amanda Seyfried) e il marito George (James Norton), si trasferiscono dal centro di Manhattan in una grande casa di campagna della Hudson Valley; lui è stato assunto come professore di storia dell’arte; lei ha lasciato a malincuore un lavoro come restauratrice e una vita da mamma nella metropoli che tutto sommato non le dispiaceva. L’apparente serenità del vivere in natura si trasforma ben presto in una sorta di incubo a occhi semiaperti: le mura e le tante stanze del casolare iniziano a manifestare strani segni di presenze sovra-umane, gli oggetti paiono animarsi da soli e di notte intensi odori di gasolio disturbano il sonno della famiglia Clare. È l’incipit di una progressiva discesa (e ritorno) agli inferi che trasformerà l’illusorio idillio coniugale in una psicosi orrorifica di infedeltà e contatto intra-spirituale su toni sovrannaturali.
Tra ghost movie, trascendenza e irreparabili differenze coniugali
L’acclamato romanzo scritto da Elizabeth Brundage nel 2017, elogiato persino da Stephen King per la “scrittura straordinaria” dell’autrice americana, prende vita su Netflix grazie al duo di coniugi cineasti Shari Springer Berman e Robert Pulcini in un tentativo maldestro di trasposizione cinematografica che ha fatto storcere il naso anche al di là dell’oceano. Le tinte sovrannaturali e l’abilità della Brundage di dipingere le dissonanze progressive del rapporto a due attraverso il contatto disturbante e perturbante degli spiriti nel film assume i contorni tradizionali di un ghost movie classico, in cui la materializzazione fantasmatica degli ex abitanti agricoltori dell’antica casa non è altro che la progressiva manifestazione animata di oggetti, luci e sedute spiritiche attorno ad un tavolo per invocare la trascendenza delle anime che, una volta libere dal corpo al momento della morte e dunque dal mondo materiale, entrano in quello spirituale per poter continuare, di fatto, ad esistere.
Il pensiero di Swedenborg, padre dello spiritismo che nel corso della sua vita si occupò anche si chiromanzia e astrologia, nel film di Berman e Pulcini vorrebbe essere l’amalgama letteraria e citazionista per inglobare un discorso più ampio sulle dinamiche (anche erotiche) dei rapporti, accennando alla società riconducibile agli anni ’80 fortemente patriarcale mostrando i problemi alimentari di Catherine e la sua riluttanza al cibo come sintomo psicologico di un malessere ascrivibile all’oppressione femminile della società americana di allora. Il tutto però, appare davvero poco armonizzato e la difficoltà a comprendere la riuscita dell’operazione cinematografica del duo risiede proprio nella percezione costante di inglobare a fatica elementi spirituali, mistici, religiosi e quelli più interiori, carnali, psicologici, pragmatici.
La scelta inoltre così repentina di una regia misurata e diluita con lunghi movimenti di macchina e brevi piani sequenza per la maggior parte dei minuti e poi, bruscamente, rivolta verso la sperimentazione più contemporanea di lenti distorte e soggettive attaccate al corpo per coinvolgere fisicamente lo spettatore attraverso la prossimità col personaggio, stonano come ambizione e ricerca spettacolare, apprezzabile nell’aspirazione ma confusionaria nella resa incontenibile.
L’apparenza delle cose dunque sembra a suo modo confermare il pensiero che vede la letteratura e il cinema come linguaggi molto spesso ai lati opposti della stessa Arte, come i coniugi Cole nella loro antitetica posizione sulla credibilità dei fantasmi. La parola-testo e la parola-immagine spesso non collimano e il film Netflix, nonostante la prova attoriale della Seyfried e di Norton (e il ruolo chiave di F. Murray Abraham), palesa il facile inciampo della trasposizione cinematografica di un best-seller letterario. E nel constatare l’innegabile opposizione (sia matrimoniale che artistica) le strade da intraprendere sono due: provare a trovare un compromesso o, come accade ai protagonisti, arrivare al conflitto.