L’immensità recensione film di Emanuele Crialese con Penélope Cruz, Luana Giuliani, Vincenzo Amato e Patrizio Francioni
Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2022, L’immensità di Emanuele Crialese sarà distribuito nelle sale italiane da Warner Bros..
Roma, anni ’70. Adriana (Luana Giuliani) aspetta sul tetto di casa che arrivi un segnale: dall’alto, da un’altra galassia, quella a cui appartiene. Perché Adriana sa che c’è qualcosa di sbagliato in lei, sente di non identificarsi nel genere che le è stato assegnato, si fa chiamare Adri o Andrea e preferisce vestirsi con abiti maschili, informi, che nascondono un corpo in cambiamento. Con i suoi fratelli più piccoli, Gino (Patrizio Francioni) e Diana (Maria Chiara Goretti) corre di nascosto nel canneto dietro casa, inventando giochi e aspettando l’arrivo dell’estate per ritrovarsi con i tanti cuginetti e zii. Quell’alienazione che sente dentro è riverberata da sua madre, Clara (Penélope Cruz), bellissima e solare, ma intrappolata in un matrimonio senza amore con un uomo troppo rigido e violento (Vincenzo Amato).
Così, per nascondere ai figli la sofferenza, Clara riempie la casa di canzoni, preparando la tavola con i tre figli a suon di Rumore dell’iconica Raffaella Carrà, raccontando storie e rifiutandosi di punirli duramente – come vorrebbe il parentado e il marito – quando Adri ha l’idea di nascondersi con tutti i cugini nei sotterranei della grande casa estiva. E, soprattutto, lascia ai tre bambini la libertà di essere tali, senza troppe limitazioni, pur non comprendendo appieno ciò che prova Adriana/Andrea.
L’immensità è una favola intima e personale
L’immensità è il film più personale di Emanuele Crialese, un viaggio nella memoria che il regista ha impiegato ben undici anni prima di realizzare, scrivendo a sei mani la sceneggiatura con Vittorio Moroni e Francesca Manieri e raccontando, attraverso gli occhi di Adriana, quella che è stata la sua infanzia, il suo senso di inadeguatezza e di non appartenenza. Ne viene fuori una favola intima e delicata, che mescola al dramma della violenza domestica e della ricerca della propria identità toni più leggeri, fiabeschi, a volte folli, come quello che gli occhi dei più piccoli riescono a percepire guardando il mondo.
A tratti la messinscena può risultare artificiosa, come se gli anni ’70 ricostruiti nel film, con gli abiti (stupendi quelli creati per Clara dal costumista Massimo Cantini Parrini), le canzoni e persino le ambientazioni sembrassero saltar fuori direttamente da uno sceneggiato televisivo di quegli anni, consolidando ancora di più il legame tra vita e televisione che anima l’intero film.
Ed è onnipresente nel film l’arte, quella che passa attraverso lo schermo di un televisore, la musica e la danza di icone di quegli anni, Raffaella Carrà, Patty Pravo, un giovane Adriano Celentano che canta Prisencolinensinainciusol, perfetta per raccontare la confusione e l’insensatezza di Adri che immagina di sostituire il molleggiato in uno stacchetto musicale in bianco e nero. La TV e l’arte come mezzo di evasione, ma anche come mezzo per comunicare e mostrare ciò che si ha dentro; l’arte come taumaturgia e liberazione, come gioia e libertà. Libertà sia da un corpo che non ti appartiene, sia da una relazione abusiva: in questo Clara – con una Penélope Cruz meravigliosa – e Adri – l’esordiente e intensa Luana Giuliani – sono specchio l’una dell’altra, con le loro barriere a intrappolarle.
L’immensità resta sospeso a metà tra il sogno e la realtà, regalando scene dolcissime e visivamente potenti, ma, purtroppo, anche abbandonandosi a fare i conti con un’incompiutezza nel suo finale, che è più un non finale, potremmo dire. E che se da un lato rispecchia il mantra di Crialese che siamo anime in migrazione e che questa migrazione non ha (con)fine, dall’altro ci fa pensare che, forse, in tutta questa immensità rischiamo di perderci, di naufragare senza un appiglio.