L’ufficiale e la spia recensione del film di Roman Polanski con Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner e Grégory Gadebois
Cinema come terapia, storie per la catarsi, lo schermo per una richiesta di perdono: L’ufficiale e la spia – J’accuse di Roman Polanski sbanca tutto, e si pone come una delle opere più riuscite e personali del genio polacco. Perché è purissimo cinema, sì, ma è anche e forse soprattutto una confessione personale che si traveste da ricostruzione storica. E proprio in questo sottile, profondissimo interstizio si inserisce la storia di Alfred Dreyfus, capitano di Stato Maggiore nella Francia della seconda metà dell’Ottocento, accusato di essere una spia tedesca e difeso dal solo Georges Picquart, ufficiale di carriera, che si vide travolgere carriera e vita pur di difendere un ideale, la strenua difesa della verità.
Polanski è stato autore eccellente di thriller metafisici, horror surreali, complotti internazionali e commedie grottesche: ma ha sempre messo al centro della sua ricerca filmica la Verità, o meglio quella verità che viene costantemente messa in discussione, perennemente inseguita e nascosta da un Mistero immanente, dall’enigma della vita. Le sue vicissitudini personali sono spesso tracimate nel cinema: i suoi dolori e i suoi errori hanno colorato le sue storie e riempito emotivamente le sue opere, ma raramente in passato è stato così lampante l’utilizzo del cinema come mezzo di confessione, raramente l’occhio del regista ha rivelato il suo sguardo personale su fatti oggettivamente narrati, un vestito che calza perfettamente, uno stile che sa farsi tutt’uno con la vita che racconta.
L’ufficiale e la spia – J’accuse parte con un lungo piano americano, uno dei migliori degli ultimi anni: una ricostruzione scenica maestosa si incastra perfettamente con lo stile plumbeo de L’inquilino del terzo piano, e gli sguardi, le espressioni, i volti e i movimenti degli attori in scena si fanno racconto. J’accuse è uno dei risultati più lampanti, luminosi, lucidi, della poetica di Polanski: duro e diretto, si snoda nelle sue varie fasi da detection rendendo appassionante una storia già nota, facendo partecipare lo spettatore che, pur se la fine è nota, rimane ancorato al destino dei personaggi in campo.
C’è come sempre Hitchcock, quando lo sguardo di Roman autore si posa sui suoi attori: e c’è tanto cinema quando ripercorre le storie dentro le storie, ricostruisce un abile gioco di specchi confondendo realtà e finzione, edifica come scatole cinesi le sue sequenze che tirano dritte fino al tesissimo finale. Servito egregiamente da Jean Dujardin e Louis Garrel, Polanski scrive e dirige un dramma storico che si dissolve e lascia il dolore di un dramma personale, sfumato tra le pieghe della verità.
E restano solo gli occhi dolorosi, chiusi aperti di Emmanuelle Seigner, musa e attrice: trait d’union, catena indissolubile per collegare vero e falso, per misurare la lunghezza e la durata del dolore.
Gianlorenzo