L’uomo del labirinto recensione del film di Donato Carrisi con Toni Servillo, Dustin Hoffman, Valentina Bellè, Vinicio Marchioni e Caterina Shulha
L’adattamento cinematografico di un romanzo – L’uomo del labirinto è un libro* del 2017 scritto da Donato Carrisi – è ormai un cliché, che sia una necessità artistica o un modo per sfruttare fino all’ultimo minuto il successo economico di qualcosa, ha sempre scatenato nel lettore / spettatore diverse reazioni, la più comune è “Ah ma è troppo diverso dal libro”.
E menomale. L’adattamento è un processo complicato ma significa che una storia deve adattarsi a un mezzo diverso e non essere una sua copia. Donato Carrisi, uomo di televisione e scrittore, scrive un libro come se fosse già una sceneggiatura, immaginando la storia sul grande schermo.
L’uomo del labirinto ha il limite di sembrare proprio un libro sullo schermo, con troppi dettagli che un lettore non farebbe caso ma che uno spettatore non può non notare e per i quali ovviamente si aspetta una spiegazione.
L’uomo del labirinto invece spiegazioni ne dà poche, ma è proprio questo il bello: esci dalla sala con un senso di insoddisfazione e inquietudine che non ti fa smettere di pensare alla trama così intrecciata e speculare. Sei fuori ma sei ancora dentro a provare, invano, a rimettere insieme i pezzi.
È questo ciò che rende un bel film L’uomo del labirinto, la capacità di catturarti anche oltre la durata del film e di tenerti con la mente incollata allo schermo senza la possibilità di distrarti nemmeno per guardare l’orario sul cellulare, e al giorno d’oggi è un vero lusso.
Donato Carrisi dissemina un’infinità indizi e simbologie al punto da non renderci conto se effettivamente tutto ha un secondo significato, oppure no.
L’uomo del labirinto non è ambientato in Svizzera né in un hotel, ma è comunque in un non-luogo ma anche un non-tempo.
Molto simile ad un immaginario distopico, ci troviamo di fronte ad una città che sembra vecchia ma vedendola dai finestrini delle auto somiglia ad un sobborgo di Tokyo nel 2030. I nomi dei personaggi sono sia italiani che inglesi, i costumi sono datati, come anche gli apparecchi elettronici, eppure l’unico personaggio ad avere un iPhone e un MacBook è Bruno Genko (Toni Servillo), come se fosse l’unico più avanti degli altri.
Samanta Andretti (Valentina Bellè) viene ritrovata dopo 15 anni chiusa in un labirinto costretta a giocare con il suo rapitore pur di sopravvivere, sarà interrogata da un profiler (Dustin Hoffman) che cerca, attraverso la psicologia, di trovare il criminale. Contemporaneamente Bruno Genko, investigatore privato che però si occupa di recupero crediti, svolgerà un’indagine diversa ma altrettanto inquietante.
Genko ha una cover con gli unicorni e beve vodka accompagnata da un bicchiere di latte. Latte bianco e puro come lo è lui e come lo sono i coniglietti, ma non Bunny; fondamentale è anche la simbologia dello specchio, che segna il tempo che passa e mostra significati nascosti; e poi c’è il numero 23, che viene disseminato per tutto il film.
La forza del film sta nel suo intreccio: un labirinto dove Carrisi ci fa entrare senza effettivamente trovare una via d’uscita. Ci mostra degli indizi ma che non spiega e fa in mondo di dubitare di tutti i personaggi, compresi noi stessi.
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