La bottega dei suicidi recensione film d’animazione scritto e diretto da Patrice Leconte basato sul romanzo Il negozio dei suicidi di Jean Teulé
Trapassati o Rimborsati.
(La bottega dei suicidi)
Quando si parla di animazione europea i francesi si sono sempre distinti in prodotti di attualità, spessore e a volte dai toni un po’ pungenti. Ricordiamo alcune opere animate tra cui Dov’è il mio corpo? (di Jérémy Clapin – 2019), Un gatto a Parigi (di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol – 2010), Il piccolo principe (di Mark Osborne – 2015) e La tela animata (di Jean-François Laguionie – 2011). In tutte queste opere, compresi ovviamente gli immancabili lungometraggi dedicati a Asterix e Obelix, c’è un film che spicca fra tutti per il suo lato macabro e dalla sottile vena di attualità ed è La bottega dei suicidi. Uscito nelle sale nel 2012, La bottega dei suicidi è diretto da Patrice Leconte ed è un adattamento cinematografico del romanzo di Jean Teulé intitolato Le Magasin des Suicides.
In un’era dove l’animazione 3D è quella più utilizzata, Leconte decide, invece, di realizzare l’opera nella versione classica e tradizionale in 2D. Ci troviamo in una cittadella francese, dove la vita è cupa a causa di una grave crisi economica e del carovita che pesa sulla testa di tutti i cittadini. In tutta questa valle di disperazione c’è, logicamente, un alto tasso di suicidi e quindi la famiglia Tuvache prospera con la sua bottega dei suicidi, dove vendono tutto l’occorrente per potersi togliere la vita, in qualsiasi modo il cliente preferisca.
In questa città cupa, dove tutti sono depressi e hanno il broncio, nasce un bambino, il terzogenito di Lucrèce Tuvache, Alan che a differenza del resto della popolazione sorride, sprizza felicità ed è sempre di buon umore. Con l’avanzare dell’età, Alan comincia a non apprezzare lo stile di “vita” che affligge la città e soprattutto il giro d’affari di cui ne beneficia la sua stessa famiglia, convinto che il suicidio non risolva assolutamente nulla.
A fronte di questo ideale, Alan e i suoi amici decidono di convincere le persone, con ogni mezzo a loro disposizione, a non suicidarsi e usano come campo di questa “rivoluzione” proprio la bottega dei suicidi, cosa che ovviamente in un primo momento nuoce agli affari di famiglia.
A presentarlo in questo modo il film potrebbe risultare angosciante e di cattivo gusto, ma in realtà è una commedia brillante dai tratti noir, in cui le atmosfere alla Tim Burton vanno a braccetto con lo stile retrò dell’animazione classica francese. Interessante la distribuzione drastica dei colori che hanno un significato ben preciso. L’attività e la vita della famiglia Tuvache ci vengono mostrate con colori vivaci e ben distinti, quasi a rappresentare il benessere e le prospettive per andare avanti che la bottega ha fruttato a questo nucleo famigliare. Il resto del mondo e delle persone, invece, ci vengono mostrati con tonalità di colori più scuri, quasi in una scala di grigi che rappresentano la mancanza di qualsivoglia speranza e voglia di vivere. Il mix di tristezza e gioia che ci accompagna nella visione del film è supportata dalla colonna sonora, in stile musical, di Étienne Perruchon che rende più leggero e piacevole questo lungometraggio.
Interessante l’idea di realizzare un film animato con una tematica così forte, in un periodo di grande recessione mondiale iniziato proprio nel 2008. La bottega dei suicidi dimostra quindi di voler raccontare, con ironia, una situazione poco felice per tutta la popolazione mondiale, chiari riferimenti al carovita che non va di certo a braccetto con gli stipendi bassi.
Purtroppo l’opera di Leconte presenta un difetto non trascurabile: gli avvenimenti scorrono troppo velocemente, quando invece sarebbe stato meglio approfondire queste tematiche e seguire un percorso più lento ed evolutivo. La bottega dei suicidi resta comunque piacevole grazie alla sua macabra ironia e all’apprezzabile messaggio positivo che si fa strada, con sempre più vigore, durante la narrazione.