La brava moglie recensione film di Martin Provost con Juliette Binoche, Yolande Moreau, Noémie Lvovsky, Edouard Baer e François Berléand
A lungo rimandato a causa della pandemia, La brava moglie approderà finalmente sugli schermi italiani il 17 giugno grazie a Movies Inspired. Nel frattempo, è stato tra i protagonisti dei César (i corrispettivi in Francia dei nostri David di Donatello), aggiudicandosene uno per i migliori costumi e concorrendo in quattro categorie.
Il nuovo film di Martin Provost torna su un tema sempre molto attuale, soprattutto alla luce delle continue assurdità a cui ci tocca assistere quotidianamente, ovvero quello dell’emancipazione femminile. Ambientato in pieno ’68, un’epoca in cui soffiava il vento del cambiamento, La brava moglie mette in scena a mo’ di controcampo la quotidianità di una scuola che ha come obiettivo l’educazione di giovani ragazze in età da marito. Cucinare, rammendare, stirare, fare il bucato e al contempo assimilare una filosofia di devozione e subalternità per assecondare in tutto e per tutto il consorte. Una sorta di microcosmo a sé stante, in un momento in cui finalmente si cominciava a marciare verso una presa di coscienza femminile, nel tentativo di sovvertire un malcostume sociale durato nei secoli (e che ancora oggi, purtroppo, continua tristemente a esistere).
Martin Provost è un regista che, da sempre, ha dedicato un’attenzione particolare alle donne e al loro mondo. Lo dimostrano il bellissimo Séraphine, incentrato sulla figura della pittrice francese Séraphine de Senlis, interpretata con sfumature di rara intensità da Yolande Moreau, e Quello che so di lei, storia di amicizia-ostilità femminile in cui assistiamo agli scambi di alto livello recitativo tra Catherine Deneuve e Catherine Frot. Anche in questo caso il regista francese affida a Juliette Binoche un ruolo affascinante, raccontandone la progressiva emancipazione e il passaggio da vedova inconsolabile (di un marito che ha sperperato tutta la sua ricchezza per colpa del vizio del gioco) a donna pronta a prendere in mano la sua vita e a mettersi realmente in gioco.
L’ambientazione scolastica gli permette di spingere sulla coralità, alternando tra la generazione delle insegnanti – e qui torna ancora una volta la Moreau, cognata della protagonista con la quale instaura un rapporto di grande complicità – e quella delle alunne, restie a essere indottrinate e piegate a un futuro che non accettano. A prevalere sono i toni della commedia, dell’impegno civile che non contempla necessariamente il dramma, della leggerezza che non è sinonimo di superficialità. Provost prova a percorrere diverse strade, a rappresentare psicologie figlie di quell’epoca (ma anche universali), a entrare realmente in contatto con l’universo femminile. In alcuni momenti ci riesce, in altri si lascia prendere da un eccesso di schematismo e perde di vista i buoni spunti iniziali.
Da un certo punto in poi, infatti, il film viene fagocitato dal suo messaggio, i personaggi passano in secondo piano, così come la storia, e la sovraesposizione tematica spegne la narrazione. Non è nemmeno una questione di stile, con quel passaggio al musical che è invece una buonissima intuizione, ma di contenuti. Ed è un peccato perché in passato il regista francese aveva dimostrato una grande capacità di entrare in profondità, senza forzare troppo la mano.
La brava moglie, invece, funziona a sprazzi ma si perde in un’esplicitazione non necessaria di quello che vuol dire, non riuscendo, di conseguenza, a valorizzare in toto un cast che ha nella Binoche e nella Moreau due punte di diamante.