La caja recensione film di Lorenzo Vigas con
Hatzín Navarrete, Hernán Mendoza, Elián González, Cristina Zulueta, Dulce Alexa Alfaro e Graciela Beltrán
Lorezo Vigas è alla continua ricerca del significato della parola padre in un territorio, quello messicano, dove non ha ancora trovato pace. La caja chiude una trilogia al riguardo cominciata con Los elefantes nunca olvidan e proseguita con Ti guardo, vincitore del Leone d’Oro alla 72ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Stavolta l’attenzione è sulla presenza/assenza del padre causata da un territorio in cui tantissime persone vengono all’improvviso ritrovate in fosse comuni situate nelle aree più isolate.
Hatzín (Hatzín Navarrete) ha il compito di recuperare la caja, l’urna funebre metallica in cui lo stato messicano conserva i resti dei cadaveri che trovano un’identificazione. Ha la delega della nonna, i documenti che attestano la nascita del defunto padre, ma il ritiro di quella consegnata come un prelievo all’ATM gli fa incontrare Mario (Hernán Mendoza) cominciando a dubitare e sperare.
La solitudine e l’incertezza che una società vessata da violenza e omicidi si riflette sui figli e la loro crescita. Il personaggio interpretato dal giovanissimo attore messicano si convince di aver trovato la persona che può riempire un vuoto accompagnato da mille interrogativi. Non è più importare mettere un punto al dolore causato dalla mancanza e dalla sopravvivenza, quando si intravede uno spiraglio a cui aggrapparsi a qualsiasi costo.
Il lavoro minorile in Messico è una prassi che non solo preclude a bambini e ragazzi il momento clou in cui si sviluppa l’affettività, ma li inserisce in contesti in cui la scala valoriale è compromessa dalla criminalità e dal sangue. Se non si hanno radici forti, se non si hanno modelli virtuosi, si può finire travolti. O peggio, ci si può accontentare.
La storia Hatzín è la cartina tornasole di un sistema in cui sbandare abbagliati dalla promessa di una serenità è all’ordine del giorno. Il datore di lavoro può diventare un padre, ma che padre è quello che chiede di minacciare o colpire a morte innocenti anziani? Forse meglio dei resti inerti, con cui riprendere la via di casa e provare, a soli dodici anni, a ricominciare da soli.