La camarista recensione film di Lila Avilés con Gabriela Cartol, Teresa Sánchez, Agustina Quinci e Alán Uribe presentato al CinemaSpagna 2020
La camarista, opera prima di Lila Avilés, si incentra con ingegno e sensibilità su un unico personaggio importante: Eve. Trascendiamo dal particolare al quadro generale per prendere coscienza, se qualcuno ne fosse sprovvisto, del muro invalicabile esistente tra le classi sociali. La regista dimostra la capacità di porre attenzione su una categoria sociale che passa di solito inosservata.
La storia ruota intorno ad Eve. Lei è la cameriera di un albergo di lusso di Città del Messico. Bussa di porta in porta ed ogni volta apre un esemplare di un microcosmo diverso, un mondo di sorprese. Riesce ad identificare i clienti attraverso le pulizie, dal disordine, dai bagagli e dai libri che leggono. Denuda la loro privacy e ne custodisce i piccoli segreti; è una voyeur dell’intimità altrui in assenza dei legittimi proprietari. Eve desidera ciò che non può essere, fantastica di essere l’ospite e non la cameriera.
Il suo sogno più grande è una promozione che le permetta di pulire le stanze migliori, svolgendo il lavoro al 42° piano. Non è difficile immaginare la graduale alienazione dell’introversa Eve mentre passano le settimane e non si verifica il progresso anelato. Come in ogni lotta di classe che si rispetti, la concorrenza tra i più umili va sempre a vantaggio dei profitti dell’azienda.
Attraverso una struttura narrativa lenta e contemplativa, La camarista ci introduce senza indugio nella routine dei corridoi di un albergo dal quale non si esce mai. Lo spettatore entra nella storia con la sensazione di essere lì, nascosto in una nicchia, osservando ciò che accade ma senza partecipare, come voyeur a sua volta.
Il film ricorda Roma di Cuaròn non solo per le somiglianze tra le cameriere Eve e Cleo ma anche per lo stile diretto della fotografia.
La telecamera si concentra costantemente sul viso e sul corpo di Eve poiché è consapevole che una volta usciti dall’hotel la dimenticheremo, come tante altre cameriere che si muovono silenziose e segretamente dentro le viscere di un albergo di lusso.
La regia di Avilès non perde di vista neanche per un istante la protagonista, la seguiamo in tutti i sui movimenti, anche quelli che sembrano minimi o trascurabili. Forse questo è l’unico neo: il ritmo volutamente blando rischia di “addormentare” il pubblico, lasciandolo con la strana sensazione di stare all’erta aspettando un qualcosa che poi non si concretizza.
Gabriela Cartol ci regala una prova attoriale meravigliosa sostenendo sulle spalle tutto il peso del film. E non per modo di dire, l’attrice è presente in quasi tutte le inquadrature.
La camarista diffonde quella sensazione soffocante di prigionia, del volere di più e di scoprire che ciò che si è o si possiede, forse, non sarà mai abbastanza. Una bramosia febbrile in contrasto con l’eterna monotonia delle giornate di lavoro, senza fine e sempre uguali a se stesse.