La casa di carta 4 recensione serie Netflix creata da Álex Pina con Pedro Alonso, Álvaro Morte, Úrsula Corberó, Alba Flores, Jaime Lorente, Miguel Herrán, Esther Acebo, Itziar Ituño e Darko Peric
“La vita è questo: divertirsi fino alla fine della festa.”
(Pedro Alonso, La casa di carta 4)
Aggrapparsi disperatamente ai flashback che vedono protagonista lo straordinario Pedro Alonso (Berlino), in una serie ormai alla deriva creativa sin dalla precedente, terza stagione, tra snodi grossolani e fantascienza hacking, asservita ad un fan service maldestro che vede gli amatissimi personaggi creati da Álex Pina immergersi a fatica in una storia ridotta ai minimi termini, tra conflitti pretestuosi, fiumi di pallottole ed esplosioni, empietà delle forze dell’ordine divenute i cattivi e buoni talmente fragili da sconfessare se stessi in un battito di ciglia, come nelle più classiche telenovelas latine.
Perso Il Professore (Álvaro Morte), ridotto ad una figurina inerme in un’accoppiata con Lisbona (Itziar Ituño) che non funziona disperdendone l’essenza del personaggio, recuperata sul finale proprio quando la coppia si separa, persi ingegno e sofisticatezza del piano e del colpo grosso a favore di una guerra armata stordente che cerca con il suo frastuono di coprire le debolezze narrative, persi i punti di riferimento nella distinzione tra buoni e cattivi che hanno caratterizzato l’arco narrativo della serie originale – con i buoni tra le forze dell’ordine e i cattivi dentro la Zecca di Stato a conquistarci con la loro empatia e le loro gesta – adesso Polizia, Servizi Segreti, l’intero establishment politico ed economico sono ricondotti ad un Male assoluto macchiettistico, violento, falso, prevaricatore e pericoloso, che merita di essere sepolto dall’anarchia e dall’insurrezione del popolo in una escalation sospinta da vaghi rimandi filosofici a Moore.
Contenuti sessuali sempre più espliciti, tanto scorretti e volgari quanto futili, fuori contesto persino nella caratterizzazione di un personaggio instabile come Tokyo (Úrsula Corberó), che sfociano addirittura nelle molestie e nello stupro più immotivato, disturbante e nonsense, come se in preda ad un delirio creativo Álex Pina abbia cercato di mettere dentro al calderone qualsiasi cosa eccetto una buona storia, l’elemento chiave che ha fatto innamorare Italia, Francia, Argentina, Cile, Brasile, Portogallo, Nord Africa, Medio Oriente e Turchia dei suoi personaggi facendo diventare La casa di carta il titolo Netflix più visto di sempre in tutti questi Paesi, vincitore nel 2018 di un International Emmy Award.
La casa di carta 4 decade all’ingegnosità della rapina alla guerriglia armata, dal romanticismo e dalla forza dei legami al bum bum ciao senz’anima e senza storia, da buoni vs cattivi che però si fanno amare all’attacco al potere malvagio e corrotto da B-Movie di basso rango, dalla rapina alla guerra, sfociando poi all’improvviso nello slasher puro dove il maniaco omicida Gandía (José Manuel Poga), praticamente immortale come da canone classico del genere, semina sangue e terrore diventando l’incubo dei nostri beniamini che lo crivellano inutilmente con armi automatiche e bombe, in contemporanea frontalmente, lateralmente e alle spalle, persino in sei contro uno, difendendosi a suon di pistole e capriole, ricordandoci tristemente l’esordio malaugurante della terza stagione, quando la strategia ed il piano avevano già abdicato in favore degli scenari da videogame alla Hitman.
Pur continuando ad amare Berlino che ci canta Ti amo e i suoi Dalì, e riconoscendo che anche i nuovi personaggi come Palermo (Rodrigo De la Serna), Bogotá (Hovik Keuchkerian) e Marsiglia (Luka Peros) avrebbero meritato ben altro trattamento, è difficile riconoscere attenuanti ad un fan service maldestro, povero nella scrittura e disonesto negli intenti.