La casa in fondo al lago recensione film di Julien Maury e Alexandre Bustillo con Camille Rowe, James Jagger, Eric Savin e Carolina Massey
La casa in fondo al lago, scritto e diretto da Julien Maury e Alexandre Bustillo – che nel 2017 avevano diretto Leatherface, ottavo film della saga Non aprite quella porta e prequel dell’omonimo film del 1974 di Tobe Hooper – racconta la storia di Tina (interpretata dalla modella Camille Rowe) e Ben (James Jagger, figlio del famoso Mick dei Rolling Stones), due giovani YouTuber che, viaggiando nell’entroterra francese, decidono di visitare una casa completamente intatta in fondo ad un lago per poi condividere il video di questa loro esplorazione sui rispettivi canali social.
Tuttavia, i due ragazzi si accorgono ben presto che la casa è stata il triste scenario di crimini efferati e violenti e che la loro visita ha risvegliato un’oscura presenza determinata a tenerli intrappolati in fondo al lago mentre le loro riserve di ossigeno cominciano lentamente ad esaurirsi.
Seguendo le orme dei mockumentary più conosciuti come The Blair Witch Project (Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez, 1999) e Rec (Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2007), La casa in fondo al lago si presenta con un montaggio che alterna agli sguardi in soggettiva dei protagonisti le classiche inquadrature in terza persona. L’espediente narrativo inedito però va ricercato nella scelta di ambientare un film horror sott’acqua; aspetto che certamente potrebbe elettrizzare i più curiosi del genere ma che ha comunque già dei predecessori: tra questi sicuramente va ricordato Sanctum del 2011 diretto da Alister Grierson e prodotto da James Cameron o il più recente 47 metri (2017) di Johannes Roberts.
Sebbene l’ambientazione a primo impatto possa presentarsi insolita, nuova e originale, ciò che ne soffre di più è sicuramente una sceneggiatura priva di slanci che, anteponendo agli sviluppi narrativi una spasmodica attenzione all’esplorazione della casa da parte dei protagonisti, comincia a rivelarsi banale e prevedibile sotto molti aspetti. Ad azione avviata, infatti, Maury e Bustillo si ritrovano intrappolati nella loro stessa materia: l’acqua, oltre a limitare i movimenti dei protagonisti, rallenta la trama e, al contempo, spinge ai limiti della leggibilità alcune scene che risultano o troppo cupe o eccessivamente frenetiche.
Di conseguenza, la forma viene a prevalere sul contenuto ed è in questa precisa circostanza che il film trova una seppur debole via di riscatto: la fotografia di Jacques Ballard, escluse le sequenze d’azione, sembra voler raccontare di più, soffermandosi sui dettagli e su quelle storie nascoste racchiuse come un piccolo tesoro all’interno degli oggetti che vengono diligentemente inquadrati dal suo obiettivo.
Tutto ciò però non riesce a riscattare un’opera che, nel complesso, è priva di vigore e debole nella costruzione dei personaggi; rimangono impresse nella retina solo quelle immagini suggestive e surreali create dall’atmosfera sottomarina e la sensazione di aver partecipato ad uno spettacolo visivo fine a se stesso.