Se esistesse una lega per la protezione dei mostri, Guillermo Del Toro ne sarebbe il presidente.
Con La Forma Dell’Acqua – The Shape of Water, il regista messicano prende le parti di una creatura anfibia, parente stretta del mostro della laguna nera, strappata al Rio delle Amazzoni dall’esercito americano. In un laboratorio di Baltimora, il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg) e il colonnello Strickland (Michael Shannon), con metodi diversi, studiano la creatura, sperando di poterne ricavare un vantaggio strategico che smuova gli equilibri tra USA e URSS. Siamo nel 1962, e la Guerra Fredda divampa.
Sulla creatura ha messo gli occhi anche Elisa Esposìto (Sally Hawkins), donna delle pulizie affascinata dall’anfibio umanoide (Doug Jones). Elisa riesce a stabilire un legame affettivo con la creatura, e il fatto che non parli non è un problema: Elisa è muta, e le sue uniche frequentazioni sono limitate alla collega Zelda (Octavia Spencer) e al vicino di casa Giles, un sessantenne disegnatore di pubblicità (Richard Jenkins), gli unici in grado di interpretare il linguaggio dei segni. L’esercito però è impaziente, e progetta di accelerare l’analisi della creatura, costi quel che costi.
Guillermo Del Toro è uno di quegli artisti che sembrano essere riusciti a prendere un nucleo oscuro dentro di sé e trasformarlo in energia positiva, una scintilla creativa sulla quale basare la propria visione artistica; per questo motivo è sempre stato a suo agio con i mostri (come recita anche il titolo della mostra da lui curata e che speriamo di vedere anche in Europa prima o poi): né buoni né cattivi, i mostri sono la proiezione in carne ed ossa del disagio e della sofferenza di chi, per motivi oggettivi o soggettivi, fisici o psicologici, si sente diverso, incompreso, emarginato.
Non ci sono molteplici chiavi di lettura in The Shape of Water: è una fiaba (per adulti!), nella quale i ruoli sono ben chiari, e la trama è limpida. Non punta a sorprendere, ma a meravigliare: più che le interpretazioni degli attori (meritate le candidature agli Oscar per Hawkins, Jenkins e Spencer), il punto di forza del film sono le immagini, i colori (prevalentemente verde, e ‘foglia di tè’), la composizione delle scene. E’ un film di cui riempirsi gli occhi. Da vedere al cinema e quando sarà il momento da riguardare in home video, mettendo in pausa e ammirando un fotogramma per volta.
Del Toro cattura lo stile di un momento storico, l’inizio degli anni sessanta, in cui sta arrivando l’era moderna. Un’America fatta di musical, torte fatte in casa e pubblicità illustrate che sta lasciando spazio alla velocità, le catene in franchising e la fotografia. Non si tratta però di nostalgia. In questa cartolina da American Graffiti alla quale qualcuno guarda oggi come un modello di riferimento, si cela un messaggio sociale e politico: questa è anche un’America che diffida di tutto ciò che non è Wasp, si tratti di presunte spie sovietiche, orientamenti sessuali o colore della pelle. Un’America che vede mostri ovunque, e che, convincendosi di aver bisogno di anticorpi, finisce per generare mostri veri.
Ma l’obiettivo del regista messicano non è dividere: tra spezzoni di film in bianco e nero in tv e pellicole in Cinemascope in sala, il cinema nel cinema racconta storie di integrazione, a sottolineare che l’arte può aiutare a instillare un messaggio sociale, che magari non ha effetto istantaneo, ma può lentamente mettere radici e sbocciare in futuro. E nell’immediato, si esce dalla sala con il cuore un po’ più gonfio.
La Forma Dell’Acqua ha già vinto il Leone d’Oro alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, e considerati tutti gli ingredienti (una storia romantica, un messaggio politico non invadente, l’amore per la vecchia Hollywood, il potere positivo dell’arte, una realizzazione tecnica sopraffina), non sarà forse il miglior film del 2017 in assoluto, ma sarà veramente difficile strappare la statuetta di Miglior Film dalla mano artigliata della Creatura. E non ce ne lamentiamo. Per dirla alla The Blob, ‘Qui non c’è nessuno, solo noi mostri’.