La metamorfosi degli uccelli recensione film di Catarina Vasconcelos con Manuel Rosa, João Mora, Ana Vasconcelos e Henrique Vasconcelos
La metamorfosi degli uccelli racconta la storia di una famiglia in modo non convenzionale: alla narrazione vera e propria dei fatti, si sovrappongono una serie di oggetti appartenenti ai diversi membri che, andando a costituire una sorta di “museo della memoria”, aiutano a ricomporre le vicende familiari. La storia prende avvio da uno scambio epistolare – avvenuto per un lasso di tempo piuttosto lungo (durato probabilmente mesi) – tra la madre della famiglia protagonista delle vicende, Beatriz, e suo marito, Henrique, padre dei sei bambini. Henrique, che per motivi di lavoro si è dovuto recare in Africa quando ancora la presenza coloniale portoghese aveva il predominio su alcuni Stati, attraverso lettere e sporadiche telefonate cerca di assicurarsi che la sua famiglia, rimasta in Portogallo, stia bene. Il passato coloniale del Paese, che viene raccontato in secondo piano, costituisce lo sfondo dello scambio epistolare: attraverso le colorate cartoline propagandistiche inviate alla famiglia si racconta delle grandi possibilità di lavoro e della soddisfazione incontrata in Africa.
La disposizione degli oggetti non è però casuale: oltre al semplice fine pubblicitario delle cartoline, si possono scorgere una serie di simboli e rimandi esterni rappresentati da soprammobili e ninnoli che decorano il focolare domestico. Tra tutti questi simboli spicca per primo un bassorilievo di due occhi di metallo, che immediatamente rievoca una dimensione mistica, tradizionalmente associata a Santa Lucia, protettrice degli occhi e della vista.
Come già Dante aveva intuito nella sua Commedia, rendendo la santa l’allegoria della grazia illuminante, anche in La metamorfosi degli uccelli il riferimento non è semplicemente ad uno dei cinque sensi: gli occhi diventano strumento per osservare il mondo esterno ma anche quello interno, dell’anima e dei sentimenti, come una finestra che si affaccia contemporaneamente su due diversi mondi. Nel corso della narrazione si susseguono una serie di foto; la prima parte della pellicola, infatti, rappresenta l’equivalente di un album fotografico che lo spettatore si trova a sfogliare, ascoltando le storie legate ad una determinata immagine per ricostruire la vicenda frammentata tra foto e memorabilia.
Scorrono sullo schermo ritratti e nature morte e, sebbene i ritratti fotografici raffigurino persone in carne ed ossa, la giustapposizione ad oggetti fissi finisce per rendere i soggetti catturati quasi degli accessori, non uomini ma oggetti antropomorfizzati, in un effetto visivo che ricorda le statue metafisiche dipinte da De Chirico, sospese in una dimensione priva di spazio e di tempo, in una dimensione “altra” rispetto a quella reale. Il punto di vista cambia durante la storia, passando di generazione in generazione, fino a che la regista stessa, Catarina Vasconcelos, prende la parola per raccontare, fuori campo, di aver sognato la madre defunta.
Sempre inserito in questa fitta rete di rimandi e riferimenti esterni si colloca il recupero (involontario o meno) del topos della classicità: sia da una prospettiva “visiva”, la scena in cui uno dei figli bacia una statua di marmo, sia da un punto di vista più letterario: ricorrenti nelle opere classiche sono i sogni con protagonisti i cari defunti, interpretati ora come segnali premonitori, ora come campanelli d’allarme per un pericolo imminente.
Il recupero del passato, che avviene sullo schermo attraverso riprese di oggetti fisici (scatole, lettere, telefoni, cartoline, soprammobili, conchiglie) sembra assumere una funzione che va oltre la mera rappresentazione della nostalgia: diventa concreto e tangibile, proprio perché a conferma dei racconti che si succedono in voice over, vengono messe a sostegno delle “prove” vere e proprie, per dimostrare allo spettatore che tutto ciò che è avvenuto non è semplicemente esistito nella mente o nel ricordo di qualcuno, ma è stato toccato, utilizzato e tramandato di mano in mano, lasciando segni evidenti, sugli oggetti mostrati.
La fine di un’epoca non viene semplicemente percepita da una generazione ma viene stampata: la morte di Salazar annunciata sui giornali è prova inconfutabile e tangibile della fine di un preciso periodo caratterizzante per la storia del Paese; da qui si ricava l’attenzione per niente vana e fine a se stessa rivolta a dettagli apparentemente insignificanti, che guidano lo spettatore in questa vicenda poetica storia di famiglia.