La misura del dubbio recensione film di Daniel Auteuil con Daniel Auteuil, Grégory Gadebois, Sidse Babett Knudsen e Alice Belaïdi
Quanto si può mascherare la propria innocenza? Quanto può essere credibile una testimonianza di fronte a un caso di omicidio volontario?
Ci sono film che celano una verità nascosta dietro il tipico “viso d’angelo”, seduttore oltre i limiti del possibile nel manipolare la mente accaparrandosi gelosamente tutti i pensieri. Ad esempio Schegge di paura (Gregory Hoblit, 1996), con un caso allucinante di doppia personalità e la recente serie televisiva Presunto innocente (David E. Kelley, 2024) disponibile su Apple TV+, in cui addirittura il sospettato è un membro noto della giustizia.
Tutti innocenti a guardarli, sposati con famiglia o quasi, eppure capaci di efferatezze indefinibili. I casi sono diversi: nessuno opera eguagliando l’altro. Ognuno di loro si distingue per il modo di uccidere, per lasciare indizi depistando le indagini perché l’essere sadico ne giova. Il caso di La misura del dubbio è da analizzare: casto, sofisticato, con un sentore di L’amore secondo Dalva (Emmanuelle Nicot, 2023) che lascia senza parole.
L’avvocato penale si arrende davanti alla confessione a posteriori: l’insuccesso è assicurato.
A prima vista, La misura del dubbio ricorda Anatomia di una caduta (Justine Triet, 2023): il processo per omicidio contro la moglie viene discusso alla Corte d’Assise per scagionare il marito Nicolas Milik (Grégory Gadebois) che quella notte non ha commesso alcun tipo di omicidio. Così pensa l’avvocato penalista Jean Monier interpretato da Daniel Auteuil – attore e regista del film ‒ che si batte per vincere la causa contro ogni previsione.
Le Fil ‒ titolo originale molto più azzeccato per il suo significato ‒ è un film che cambia in base al punto di vista che si adotta: da una parte l’occhio penalista trova la sua vocazione dentro l’aula del tribunale, l’imputato seduto dietro e l’avvocato davanti che osserva, ascolta e dice la sua; dall’altra il guizzo manipolatore seriale e strabiliante dell’assassino che se ne sta in silenzio, piange, si rassegna ma sa di essere colpevole.
La scelta ricade sullo spettatore: farsi pervadere da un brivido freddo sulla schiena in mezzo al colpo di scena o rimanere fedeli alle parole di un avvocato che non si aspetta che il colpevole è proprio lì di fronte al suo sguardo. Ecco Schegge di paura, con un finale a dir poco macabro e singolare allo stesso tempo.
Tratto da una storia vera e presentato al 77° Festival di Cannes, La misura del dubbio è un dramma processuale che trova la sua linfa vitale nel colpo di scena finale. Un filo di discorsi, per l’appunto, che inizialmente si (in)segue per arrivare a una pista. All’improvviso quel filo si spezza, se ne attacca un altro e viene fuori la via più terribile.
A distanza di anni, a caso archiviato, dietro un vetro che separa la giustizia dalla colpevolezza arriva la verità sferzante, raccapricciante, inaudita. È in quel momento che tutti gli sforzi fatti si sfaldano. Subentra il fallimento ma ancora di più il dubbio di un uomo che non si è creato problemi a ingannare con la sua apparente timidezza. La sorella della vittima aveva ragione. Lei che sembrava irragionevole e invece…