Lapsis recensione film di Noah Hutton con Dean Imperial, Madeline Wise, Babe Howard, Dora Madison e Frank Wood al Trieste Science + Fiction Festival
Nell’universo parallelo e contemporaneo di Lapsis – un vero e proprio presente alternativo a detta del regista Noah Hutton che abbiamo avuto il piacere di incontrare al Trieste Science + Fiction Festival – enormi cubi metallici irradiano, attraverso un fascio di fotoni e un processo di crittografia a prova di errore, infiniti terminali cablati e dislocati in tutto il mondo grazie all’innovazione quantistica della CBLR, compagnia che grazie all’invenzione della tecnologia Quantum – flessibile e sostenibile! – ha rivoluzionato i mercati finanziari e creato un notevole indotto e nuove opportunità di lavoro occasionale, consistenti proprio nel cablaggio delle apparecchiature verso i centri abitati.
Dietro alla sua veste sci-fi, Lapsis è a tutti gli effetti un film sul precariato che, attraverso una cornice retrofuturistica – così come la tecnologia in esso rappresentata, ad esempio con i robot old style Enteron 920 – amplifica l’interesse verso la narrazione senza tuttavia distrarre dal nodo principale, funzionale al dare una rilevanza sociale ben precisa all’opera, ossia lo scagliare una dura accusa alla gig economy e allo sfruttamento del precariato, tra incremento ossessivo dell’automazione e depauperamento costante del lavoro manuale.
Lapsis affronta con decisione anche il tema della mancanza di assistenza sanitaria del ceto basso americano, costretto a reinventarsi ogni giorno tra sofferenza e lavori occasionali per poter sopravvivere ed andare avanti, in una società moderna che ha portato in dote anche una moltitudine di nuovi malesseri e disturbi psicofisici, correndo più velocemente dei bisogni dei suoi cittadini, mali rappresentati nel film dalla patologia di cui soffre il fratello del protagonista, Jamie (Babe Howard, fratello del regista e realmente affetto in passato da una simile patologia cronica): la cosiddetta Omnia, aggravata dall’indifferenza dei medici e di tutti coloro che non riescono a comprendere condizioni di sofferenza del genere.
Influenzato da Essere John Malkovich e dal Progetto DHARMA di Lost, Noah si è ispirato per la mitologia dell’opera al suo stesso documentario sulle neuroscienze In Silico, reinterpretando il reinnesto delle connessioni sinaptiche nell’uomo con il cablaggio selvaggio delle connessioni Quantum che rappresenta l’idea di fondo della storia.
Se il protagonista Dean (il bravissimo Dean Imperial) appare antico dentro e incapace di relazionarsi con la tecnologia, vista come minaccia e motivo di sospetto tra i personaggi, da contraltare Internet, sia nella finzione che nella realtà, avrebbe dovuto unirci e non, com’è invece avvenuto, dividerci in piccole comunità, ognuna con le proprie richieste e desideri, perdendo di vista l’azione collettiva indispensabile per risollevare le sorti della società e soddisfare il bisogno collettivo ed individuale.
Attraverso il suo cinema d’impegno civile vestito di fantascienza Noah Hutton afferma con forza che il vero cambiamento potrà esserci soltanto quando tutti i ceti sociali lotteranno insieme, gli uni per i diritti degli altri, anche e soprattutto a sostegno delle fasce più deboli.