L’arte di essere felici recensione film di Stefan Liberski con Benoît Poelvoorde, Camille Cottin e François Damiens [RoFF19]
Alla 19° edizione della Festa del Cinema di Roma è stato presentato in concorso L’arte di essere felici, il nuovo film di Stefan Liberski, che segna il suo ritorno dopo dieci anni di assenza dalla regia cinematografica.
Il film segue le bizzarre vicende di Jean-Yves Machond (Benoît Poelvoorde), un artista concettuale che da tempo ha perso il suo spazio e la sua rilevanza nel settore. Lo incontriamo mentre, per non farsi trovare impreparato nel caso qualcuno si ricordi della sua esistenza, intervista se stesso all’interno di una casa vuota, tanto spoglia quanto l’opera che lo ha consacrato anni prima: un ambiente espositivo spogliato di tutto tranne che delle pareti (forse a richiamare un altro Yves dell’arte, Klein).
Machond si sta trasferendo sulla riviera normanna, a Étretat, una piccola cittadina su una scogliera. Casa d’artista, auto d’artista, armadio d’artista, portamento d’artista. Lui incarna l’archetipo del virtuoso poliedrico, capace di tutto ma senza eccellere in nulla, nascondendosi dietro i propri contorti concetti e l’indubbio patrimonio intellettuale da lui accumulato negli anni.
Tuttavia, il personaggio interpretato da Poelvoorde è alla fine succube di tutto e di tutti: della gallerista, languida e (volutamente?) crudele, del marito di lei, rude e corpulento del quale è costantemente spaventato come se fosse un ragazzino che cerca di non istigare il bullo della zona e della sua stessa arte. Saranno le persone che incontra in questo nuovo luogo a farlo scendere dal piedistallo della sua grandezza concettuale, restituendogli al contempo la sicurezza necessaria per affrontare le sue paure.
La regia delicata e solare di Liberski, che mai si lancia oltre la congruenza visivo-stilistica alla base dell’intera pellicola, non lascia spazio al dubbio e contribuisce a dare un po’ di colore a questo paesino iperbolico, da dipinto, dove sembra che tutti siano artisti, forse approdati in quel luogo sulle tracce di Monet, Courbert, Boudin o degli innumerevoli altri artisti che di quelle scogliere si sono perdutamente innamorati.