Le Sang d’un poète – Il sangue di un poeta recensione film di Jean Cocteau con Enrique Rivero, Elizabeth Lee Miller, Pauline Carton e Odette Talazac
Le Sang d’un poète è la prima opera cinematografica di Jean Cocteau (preceduta solo da un cortometraggio Jean Cocteau fait du cinéma del 1925), la quale, attraverso un viaggio nei meandri della creazione artistica, si configura come il principio della stesura del testamento artistico di Cocteau, il quale trova il suo sviluppo e conclusione in altre due opere: “Orfeo” e “Il testamento di Orfeo”, dando vita alla la trilogia orfica di Jean Cocteau.
Tout poème est un blason. Il faut le déchiffre.
(Le Sang d’un poète)
«Qualsiasi poema è un blasone, è necessario decifrarlo» è questa la prima sentenza di Jean Cocteau, la quale primeggia in una didascalia nei titoli di testa del film; una posizione chiara del poeta, drammaturgo, sceneggiatore, scrittore, regista, saggista, attore; sicuramente una delle personalità più valide ad accompagnarci in quello che sarà un viaggio intenso nella creazione poetica: non solo nell’oggetto di questa creazione, ma nell’invenzione della stessa.
Le Sang d’un poète, fu il primo film francese ad utilizzare la voce fuori campo, strumento utilissimo a Cocteau per realizzare uno dei suoi intenti: fare cinema come una declamazione visuale di una delle sue poesie, un’estensione visuale, sonora e tattile del suo mondo poetico “C’était un moyen pour moi de faire de la poésie plastique” afferma. È Jean Cocteau la voce fuori campo, è lui ad essere l’io narrante dei quattro episodi del film: La mano ferita o la cicatrice del poeta, I muri hanno orecchie?, La battaglia delle palle di neve e La profanazione dell’ostia. La presenza del poeta è costante, tutto il suo mondo interiore, viene catapultato nell’opera: partendo dal mondo fiabesco dell’infanzia perduta, alla sua bisessualità, alla tragica morte del padre e del suo amato Raymond Radiguet (anche lui poeta e scrittore francese), alla dipendenza dall’oppio, fino all’estrema convinzione che vede la musica, la poesia e la danza come mezzi formidabili per colmare il suo bisogno di “manie de vérité”. Mania di verità, l’ossessione di Cocteau: voler essere fermamente creduto dallo spettatore, quando porta in scena i mostri più oscuri della sua anima.
Questo è un passaggio fondamentale della sua estetica: Cocteau è convinto che la più grande sorgente di ispirazione artistica, sia l’inconscio che l’artista riporta a galla, trasfigurandolo in opera, che sia essa letteraria, cinematografica… Essendo queste le verità più profonde della persona-artista, è impossibile che il pubblico non gli creda. L’idea d’arte cocteauiana, è un’idea d’arte a a tratti indecifrabile e per questo votata all’insuccesso: il pubblico, non abituato a conoscere, a lottare per la conoscenza, ha difficoltà ad entrare nel suo universo. A proposito di ciò, dichiara Cocteau: “Le public est une mer houleuse, il donne la nausèe”, tradotto “Il pubblico è un mare in tempesta, dà la nausea”.
L’opera di Cocteau mira all’opera d’arte totale wagneriana: una teoria ibrida del cinema, dove musica, danza, poesia padroneggiano. La musica, per esempio, non è utilizzata come mera colonna sonora ma penetra le immagini, esaltandole, drammatizzandole. La sua esigenza d’esporsi, procede secondo un’ardua sperimentazione, la quale si scontra più volte con la mitologia classica, come, per esempio, il mito di Orfeo: l’orfismo viene impiegato da Cocteau per rendere decifrabile attraverso la simbologia (gli angeli, gli specchi, la morte, le maschere) i dilemmi, che, come un filo rosso, si intrecciano nella sua opera complessiva. Essa si dilata partendo dalla convinzione che la verità poetica nasca dalla bivalenza tra vita e morte, tra vita occulta e vita in piena luce. La mitologia classica si mescola sempre con la sua propria mitologia personale: Orfeo è Cocteau, nient’altro che la sua più intima trasfigurazione.
Un pomello di una porta gira ripetutamente, una ciminiera crolla al suolo: inizia il primo episodio, intitolato La mano ferita o le cicatrici del poeta. Per quanto la fitta rete di simboli sia impossibile da analizzare in toto, il crollo della ciminiera che apre e chiude Le Sang d’un poète, richiede una riflessione: una ciminiera cade al suolo, come se fosse di carta, esprimendo una fragilità materiale inaudita, l’idea del crollo improvviso, del collasso, ci rimanda direttamente all’idea di morte, di distruzione. Questa potentissima immagine è simbolo di una poetica fondata sull’idea che solo la comprensione della propria morte e del proprio crollo, sia dispensatrice di creazione artistica; il significato della propria esistenza giunge al compimento unicamente nell’attimo della morte. Il primo episodio, ci conduce in una stanza dove il poeta sta disegnando un volto; strofinando il foglio con una mano, cancella la bocca del ritratto, imprimendola però, sulla sua mano. La bocca come una cicatrice che emana un’aureola di luce , abiterà il palmo della mano del poeta, chiedendo anche aria e costringendo il poeta a sfondare il vetro della finestra.
Il mattino seguente, siamo nel secondo episodio, I muri hanno orecchie?. L’episodio più celebre e più significativo, che per la sua composizione e rete di simboli, rappresenta uno dei picchi della poesia filmica cocteauiana. La bocca si è trasferita su una statua classica, animandola e risvegliandola da un sonno secolare. Il viso della statua, si modella lentamente acquistando un’espressione soddisfatta, mura il poeta nella stanza e gli dà un’unica via di uscita, uno specchio. Il poeta timoroso, si tuffa nello specchio. La resa fotografica di Cocteau, è pittorica (alcune inquadrature ricordano un quadro metafisico di de Chirico); entriamo in un sogno animato da forme solide e definite, godiamo della loro asciutta sinteticità.
Lo specchio, è uno dei simboli orfici più amati da Cocteau, lo ritroviamo già nella raccolta di saggi Rappel à l’ordre del 1926 (alcuni di essi risalgono addirittura al 1918/20), in Orfeo, ne Il testamento di Orfeo e nel qui analizzato Le Sang d’un poète. Nonostante assuma in ogni sua opera, significati molteplici, si può certamente riscontrare un concetto onnipresente: lo specchio, diviene il legame tra immagine riflessa dell’uomo che si specchia e la sua esistenza. L’entrata nello specchio, corrisponde dunque all’entrata nella propria immagine, nel caso del Le Sang d’un poète, nell’inconscio del poeta.
Gli specchi farebbero bene a riflettere un po’ di più prima di rimandare le immagini.
(Le Sang d’un poète)
Eh sì, gli specchi farebbero bene a riflettere prima di tramandare immagini recondite, oscure e difficilmente decifrabili: nel momento in cui il poeta attraversa lo specchio, siamo catapultati nei suoi incubi, nelle sue isole rimosse, che ora tornano a galla sotto forma di porte chiuse attraverso le quali sbirciare. Siamo nell’Hotel des Folies Dramatiques, attraverso una soggettiva, osserviamo dal buco della serratura di quattro camere: una fucilazione di un messicano, la preparazione dell’oppio riflessa sul soffitto da ombre cinesi, la fuga sulle pareti di una ragazzina che si sottrae a un castigo e gli appuntamenti di Ermafrodito, uno strano personaggio inglobato in un congegno meccanico, composto da forme astratte che ricordano l’Anèmic Cinèma di Duchamp e Ray. Successivamente, gli viene data una pistola da una mano misteriosa, con la quale si spara in testa, cingendosi improvvisamente di una corona d’alloro e ricoprendosi di una stoffa: il sangue del poeta cola sul tessuto. Il sangue apparirà due volte nel film: in questo primo caso, vuole rappresentare una vera e propria presa di coscienza da parte del poeta che, alla fine di questo onirico viaggio, riconosce il suo statuto e prende posizione, non solo sul piano esistenziale, ma anche all’interno della società, la quale lo riconosce pubblicamente e lo insignisce.
Riattraversa lo specchio e distrugge la statua, trasformandosi però, lui stesso in una statua: “Rompendo le statue rischiamo di diventarne una noi stessi”, afferma Cocteau. Fuor di metafora, l’invito è non occultare per sempre le nostre tensioni, i nostri desideri, le nostre paure fino a pietrificarci. Il poeta/statua ora si trova in un cortile dove dei bambini fanno una battaglia con le palle di neve. Siamo nel terzo episodio La battaglia delle palle di neve: è chiaro il riferimento all’infanzia del poeta, alla sua spensieratezza, ai momenti di gioco e come vedremo, non solo quello. Infatti, durante la battaglia, la statua del poeta viene distrutta ed un bambino viene colpito da una palla di neve e muore improvvisamente. Il momento di gioco che si tramuta in un incubo, ha un significato che ricorre più volte nell’opera di Cocteau: già nel romanzo Thomas l’imposteur, l’impostore viene colpito con una pallottola, che ha delle analogie con la palla di neve con cui Dargeleos colpisce Paul nel Les enfants terribles. Il colpire improvviso, la morte improvvisa, ha per Cocteau la valenza della consapevolezza che, sulla terra, non ci sia riconoscimento per l’uomo d’arte, eternamente incompreso e inconsiderato.
Siamo al quarto e ultimo episodio, La profanazione dell’ostia: il medesimo cortile innevato è ora divenuto la piazza scintillante di una città/teatro in cui il poeta, accompagnato da una donna assai somigliante alla statua, giocano a carte in presenza dell’amico mascherato da “Luigi XV”. “Si tu n’as pas l’as de cœur, tu es un homme mort”, esclama la donna, portando il poeta a rubare l’asso di cuori dal taschino del ragazzo morto precedentemente e restato impigliato al tavolo. Improvvisamente appare un angelo nero che ricopre il ragazzo e porta via al poeta la preziosa carta. Il poeta si suicida con un colpo di pistola, il sangue cola per la seconda volta: il pubblico delle logge applaude. La donna si ritrasforma in statua e, dopo aver compiuto un lungo percorso all’interno di un palazzo sontuoso ed essere stata accompagnata da un toro sacro, si sdraia in un sonno immortale: ”La noia mortale dell’immortalità”, afferma la voce narrante di Cocteau.
Il secondo suicidio del poeta, riconferma il concetto prima anticipato: la morte è la composizione e il montaggio della vita e dell’atto creativo, alla quale, il poeta acconsente. Il discorso non si conclude certamente qui, ma prosegue nei due film successivi, tra i quali, soprattutto Il testamento di Orfeo del 1960, solo tre anni prima la morte del poeta, ci conduce alla completa comprensione del suo universo, lasciandoci un’opera che, come afferma lui stesso, è dedicata a quella parte di pubblico dell’ombra, affamato di ciò che è più vero del vero, quella parte di pubblico, capace di sognare, senza dormire.