Lee Miller recensione film di Ellen Kuras con Kate Winslet, Marion Cotillard, Anrea Riseborough, Alexander Skarsgård e Josh O’Connor
di Joaldo N’kombo
In tempi recenti è impossibile non aver sentito parlare dell’ultimo film di Walter Salles Io sono ancora qui (2024), una bellissima pellicola – vincitrice dell’Oscar al miglior film straniero – che ha divulgato, al pubblico meno familiare con l’argomento, gli orrori perpetrati in Brasile durante la dittatura militare.
Guardando Lee, l’opera prima di Ellen Kuras, è risultato quasi spontaneo – nella giusta misura – un paragone, se non con il film di Salles in sé, con Fernanda Torres e la sua Eunice. Infatti, anche se dal Brasile ci si è spostati in Europa, la formula risulta essere la stessa: affidare tutto nelle mani di una grande attrice che ha il compito di riesumare e raccontare un doloroso periodo della storia umana.
Nel 2015 Kate Winslet dichiara che avrebbe interpretato in un biopic dedicato la fotografa Lee Miller; solo qualche anno più tardi, nel 2022, iniziano effettivamente le riprese del progetto – tratto dal romanzo di Antony Penrose The lives of Lee Miller – che, a questo punto, ha a bordo la regista Ellen Kuras. Un progetto su cui la Winslet, essendone anche produttore, punta fortemente.
Le responsabilità sono inevitabilmente molte, soprattutto perché il biopic è un genere che si confronta direttamente con una realtà spesso permeata di sfumature difficili da racchiudere in un film di due ore. È quindi forse un punto a favore del film il fatto che la storia di Lee si concentri principalmente su quel periodo in cui, durante il secondo conflitto mondiale, diventa una vera e propria fotografa di guerra per conto di Vogue. Dopo una prima parte di contestualizzazione, il film mantiene un ritmo piuttosto serrato, seguendo la protagonista mentre si sposta da un luogo all’altro, determinata a immortalare gli orrori di cui è testimone e a divulgarli attraverso la rivista.
La messa in scena della Kuras è molto classica: la regista non osa né si affida a particolari ricerche estetiche. Questo rende Lee Miller un film che, visivamente, non si discosta dalla media, rinunciando a un’impronta autoriale in favore di una grande fruibilità. Se non altro, è molto facile entrare nel mondo della fotografa e immedesimarsi nel suo sguardo, partecipando alla sua lotta, alle sue gioie e ai suoi dolori. Per questo Lee si può benissimo definire come un’opera prima che intrattiene facendo il suo dovere, e questo lo si deve in larga misura – come si accennava all’inizio – all’attrice protagonista.
Nemmeno senza rendersene conto, lo spettatore si ritrova quasi immediatamente alla mercé della Winslet che, sullo schermo, regala un’interpretazione ipnotizzante: la si segue ciecamente, come se fosse l’unica cosa possibile da fare. Difatti l’attrice britannica vive di luce propria ergendosi come principale punto di riferimento in un cast che comunque vanta un ottimo Andy Samberg e dei talentuosi Alexander Skarsgård e Marion Cotillard. La sua Lee Miller è feroce, espressiva, empatica, impulsiva, fragile e dolce; tutte queste emozioni vengono espresse in poco meno di due ore in un modo che la Winslet riesce a rendere credibile e mai forzato.
Il film ha comunque i suoi limiti che gli impediscono di imporsi come un’opera di elevata caratura e questo nonostante la grande interpretazione della protagonista. Citando ancora una volta Io sono ancora qui , è indubbio che quest’ultimo sia un film di Fernanda Torres quanto lo sia però anche del regista Walter Salles, che edifica un’immagine nostalgica capace di danzare su più registri visivi giocando – e riflettendo – anche con i formati video/fotografici dell’epoca in cui è ambientata la pellicola. L’utilizzo di soluzioni simili avrebbe sicuramente giovato Lee Miller, se non altro per rendere più diretto il rapporto che il film ha con l’elemento fotografico. Avrebbe potuto suggerire una riflessione sull’immagine di guerra che si integrasse non solo tematicamente, ma anche formalmente, all’immagine filmica.