Life is Waiting: Referendum and Resistance in Western Sahara recensione docufilm di Iara Lee
Dal 1975, anno in cui gli spagnoli, dopo decenni di colonizzazione, l’hanno abbandonato, il Sahara Occidentale, regione a nord-ovest del continente africano, è stato invaso dal Marocco e, sino al 1979, dalla Mauritania. Per questo, il popolo sahrawi, antico abitante di quelle terre, ha ingaggiato una dura lotta contro gli occupanti, dapprima per mezzo della guerriglia condotta dal Fronte Polisario, movimento sahrawi di liberazione nazionale, e quindi, in seguito al cessate il fuoco del 1991, attraverso una forma di resistenza non-violenta attuata in attesa di un referendum sull’indipendenza promesso all’indomani della tregua e mai svolto.
Ad oggi, il Sahara Occidentale è attraversato da un muro costruito dal Marocco lungo 2700 km – il più lungo del mondo dopo la Grande Muraglia Cinese -, che, correndo da nord a sud, taglia in due il Sahara Occidentale in una zona orientale, la più povera e inospitale, controllata dal Fronte Polisario, e in una zona occidentale prospiciente l’Oceano Atlantico – la più ricca di risorse naturali (in particolare, di fosfati) – in mano agli invasori. Il Muro della Vergogna lo chiamano i molti manifestanti che sistematicamente si ritrovano lì davanti, sfidando i milioni di mine antiuomo messe a sua protezione, per rivendicare il diritto di un intero popolo alla terra ancestrale e all’autodeterminazione. Un conflitto dimenticato, come i tanti che affliggono il mondo: una storia di diritti umani negati, abusi, violenze. E’ la storia dei sahrawi, popolo orgoglioso, ospitale e pacifico, da anni in cerca di pace e di una terra, la sua, dove poter finalmente riunirsi in un’unica comunità ad oggi dispersa tra migrazioni, campi profughi algerini e individui oppressi nei territori occupati.
Questo è il nucleo di Life is Waiting, docufilm di Iara Lee, regista brasiliana di origine coreana e fondatrice della casa di produzione Cultures of Resistance Films, che qui propone un’inchiesta focalizzata non soltanto sulla storia dell’occupazione e dei diritti calpestati, ma anche sulla cultura sahrawi e sul forte senso di appartenenza che unisce i suoi membri. Ne scaturisce un racconto che mescola efficacemente immagini delle violenze subite, testimonianze di attivisti, artisti, giornalisti e persone comuni, incursioni nei campi profughi, approfondimenti sui costumi e sulle tradizioni popolari. Il tutto accompagnato da musiche rap e tradizionali – qui simbolico trait d’union tra passato e futuro – non soltanto veicolo di rabbia e dolore, ma anche elemento narrativo in grado di fungere da collante sociale e strumento di divulgazione.
La tenace autrice e attivista porta la propria telecamera a Madrid, alla Manifestazione Annuale per il Sahara Occidentale Libero, dove raccoglie le voci di donne e uomini che chiedono semplicemente il rispetto dei loro diritti fondamentali. Quindi, si sposta dinanzi al Muro della Vergogna, dove giovani artisti posano un fiore per ogni mina disseminata; si muove, inoltre, verso il comando della missione ONU – la MINURSO – dove alcuni ragazzi sahrawi manifestano il loro pacifico dissenso sull’inerzia di quest’ultima e sulla sua incapacità di contribuire alla definitiva composizione del processo di pace.
E’ un racconto estremamente coinvolgente, appassionato e coraggioso quello che ci propone l’autrice del bel Stalking Chernobyl (2019), ultimamente presentato al Terra di Tutti – Film Festival 2020 di Bologna.
La sua è una voce che cerca di far risuonare l’eco delle grida d’aiuto di un popolo bistrattato, spesso ignorato dalle narrazioni massmediatiche occidentali, ma non per questo meno meritevole di ascolto.
“Per essere onesti, leggiamo sui giornali e seguiamo sui media quello che succede nel mondo, ma la questione del Sahara Occidentale non è così in vista” – afferma una giovane attivista straniera – “E tu non puoi immaginare queste cose finché non sei qui. Ed è impressionante vedere la volontà e il desiderio delle persone di rispettare fino in fondo il processo democratico. Vogliono decidere del loro futuro, pretendono il diritto all’autodeterminazione, non importa quel succede”.
Già, perché Life is Waiting è il racconto di una sorta di limbo dove si trovano vite in attesa d’essere vissute; come quella di Aminatou Haidar, attivista più volte imprigionata, che non teme le ritorsioni degli occupanti perché “con la forza di volontà si ottiene tutto. I miei figli possono vivere come orfani, ma non possono vivere senza dignità”.
Ma soprattutto, Life is Waiting è una storia di esemplare non-violenza, di resistenza creativa e di coraggio; la storia dei sahrawi, antico popolo del deserto, e dei suoi diritti negati.