L’impero recensione film di Bruno Dumont con Lyna Khoudri, Anamaria Vartolomei, Camille Cottin, Fabrice Luchini, Brandon Vlieghe, Julien Manier, Bernard Pruvost e Philippe Jore.
Con un film come L’impero (attualmente nelle sale italiane, purtroppo non molto cospicue, grazie ad Academy Two) il nuovo lungometraggio del regista di France, è più efficace partire dalla fine.
Appare già paradossale a partire dal titolo, se si conosce un minimo l’universo di Guerre stellari.
Il figlio di un non umano con la celebre frase dei Looney Tunes “That’s all folks” comunica che non c’è più nulla da vedere e che i giochi sono conclusi. Un po’ come accadeva in un finale d’antologia contenuto in Una pazza giornata di vacanza di John Hughes dove lo scapestrato Ferris Bueller alias Matthew Broderick avvertiva lo spettatore che la storia raccontata era giunta ai titoli di coda e non aveva senso continuare la visione sul grande schermo.
Quindi, non essendoci più nulla da vedere, risulta fondamentale focalizzarsi sull’invisibile. Tuttavia ciò che non si vede siamo noi spettatori, con i nostri interrogativi e i dubbi irrisolti.
Una fine cinematografica che coincide con la fine del pianeta Terra, ormai al collasso e privo di ogni punto di riferimento. Ciò che una volta era visibile ora non lo è più. Una chiusura ingloriosa di un popolo che si è autodistrutto e che non ha più nulla da dire o da mostrare.
Nell’ultimo lavoro di Dumont, nel corso delle due ore di durata scorrono molte immagini, ed è qui che il paradosso prende il sopravvento. Come può un film che sembra non avere nulla da dire, come enunciato nel finale e in parte nell’intero svolgimento narrativo, presentare poi una sovrabbondanza di immagini?
Diventa difficile da credere, ma nonostante ciò questa farsa “tutta da ridere” è proprio questo: un calderone di immagini futuristiche avvolte in una cornice realistica che ha smarrito la via. Vediamo un’eterna illusione, ovvero un mondo alieno che fa i conti con una popolazione ignorante e corrotta.
Non trovate che le similitudini con l’intero globo terrestre siano fin troppo evidenti? Forse quelli che vediamo come alieni non sono altro che una versione estremizzata di noi umani?
I due poveri poliziotti ignari, presi in prestito dal regista dalle sue serie televisive come P’tit Quinquin, quasi a rimarcare il concetto di estraneità ai fatti e alle circostanze, seppur presenti nel medesimo contesto, non rappresentano forse quella parte dell’essere umano nascosta da sempre? Quella meglio conosciuta come l’ingenuità di stupirsi ancora alla vista della malvagità intrinseca nel mondo e di rimanere scioccati quando il demonio dentro di noi prende il sopravvento.
Non avendo ulteriori immagini a disposizione conviene ascoltare le parole del personaggio malefico, tuttavia un’apertura ad una seconda parte non è da escludere conoscendo uno come Bruno Dumont. Il regista transalpino intreccia abilmente un interessante discorso tra generi che si annullano a vicenda, fondendo commedia e fantascienza in un affascinante tutt’uno. Al contempo, dipinge una società ormai inesorabilmente tendente al marciume, afflitta da profonde crisi d’identità.
Sarebbe illogico, quindi, pensare a una dissacrazione dell’essere umano, dove l’autore di Ma Loute non fa sconti a nessuno. Egli riserva infatti agli eccentrici poliziotti l’ultimo barlume di speranza all’interno di questo infausto mondo
Nel gioco del vedere e non vedere si dispiega un racconto spiritoso, ricco di scene già cult. Spicca un scatenato Fabrice Luchini nei panni del capo di una delle due fazioni, che non si risparmia in un’esilarante, a tratti imbarazzante, danza/trasformazione, quasi paragonabile a quella di un qualsiasi Power Ranger.
Non da meno è anche Anamaria Vartolomei, già apprezzata in La scelta di Anne – L’Événement e qui in splendida forma, oltre al fatto di interpretare un personaggio assolutamente carismatico.
Forse non sempre si ride a crepapelle, ma c’è un modo del tutto unico di ragionare e analizzare la commedia, e di riflettere sulla risata stessa. Non è assolutamente poco, considerando il difficile connubio tra attualità e i vari generi cinematografici utilizzati per sviluppare il racconto.
L’impero è una commedia, ma anche una farsa fantascientifica e al contempo un’acuta riflessione sulla società odierna. E, per assurdo, non è niente di tutto ciò.
Una cosa appare chiara: questo è un cinema che sceglie la strada più tortuosa, quella di dialogare con se stesso, di porsi più di una domanda, di reinventare e aggiornare i generi, con un’arguzia raramente vista su schermo.
È tutto o forse è solo l’inizio, o ancora è un omaggio ironico e divertito al magico mondo di Star Wars. Dumont ha ingannato gli spettatori fin dall’inizio, tessendo abilmente un ben congeniato tranello.
Il trailer del film: