LOLA recensione film di Andrew Legge con Emma Appleton, Stefanie Martini e Rory Fleck-Byrne presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022
Il tempo ha sempre affascinato la narrazione cinematografica. Dopotutto, quello del cinema è un medium che vive nella dimensione temporale. Come poter immaginare un film se prima non si riesce a cogliere il concetto di tempo? Un treno di immagini che si susseguono in rapidissima successione, procedendo in una sola direzione: avanti. Come il tempo, il film rende ciò che viene rappresentato immutabile; il futuro si attua nel presente e diviene passato. LOLA, in proiezione alla 17° edizione della Festa del Cinema di Roma, affronta proprio questo concetto astratto, costrutto umano che serve a spiegare un fenomeno innato e inamovibile. Lo fa giocando con il cinema stesso, mettendone in mostra i pilastri teorici fondanti, in un vorticoso e intrigante dialogo metalinguistico.
Il film inizia annunciando che ciò che stiamo per vedere è del materiale audiovisivo risalente ai primi anni ’40 e ritrovato solo nel 2021 in una casa nel Sussex. Si apre così una sorta di documento storico-familiare, un mockumentary denso, che segue l’esistenza formidabile di due sorelle, Thomasine (Emma Appleton) e Martha (Stefanie Martini), la prima geniale inventrice, la seconda abile artista visiva, entrambe donne “anomale” nel tempo che abitano. Lo dimostra l’invenzione da parte di Thom di una macchina del tempo audiovisiva in grado di captare trasmissioni dal futuro, chiamata LOLA in onore di una madre persa tra anomine pagine di storia. Con un dispositivo del genere, capace di mostrare frammenti di un passato-futuro imminente, risulta difficile non voler provare a cambiare le cose, specialmente in un’Inghilterra martoriata dai raid aerei tedeschi durante una guerra spietata e apparentemente senza fine. Una Radio Londra potenziata negli intenti e nei risultati, che sembra condurre verso quel futuro visto attraverso uno schermo. Ma, se quel futuro viene da quel passato vissuto, cosa accade quando si utilizzano le informazioni ricevute per cambiare il presente?
Così, l’euforia si tramuta in incubo. Il mondo cambia radicalmente. Non c’è più spazio per David Bowie, per Bob Dylan, per Stanley Kubrick (citato insaziabilmente, in modo più o meno palese, lungo tutto l’arco del film). Il futuro appartiene a disciplina e rigore, marcia e patibolo, come suonano le due hit musicali di un futuro non sperato. Basta un errore, una stortura ed ecco il nemico alle porte, in un capovolgimento della storia che fa spavento e non lascia speranza. Non puoi più cambiare il passato quando ti ritrovi in quel futuro che hai costruito con le tue mani. Possiamo andare avanti, ma non si può tornare indietro, a meno che non ci si sacrifichi per un bene maggiore, per altri io in altrettanti luoghi, che procedono parallelamente a noi nell’infinita rotaia del tempo e dello spazio.
L’audiovisivo diventa protagonista anche a livello tecnico, inserito in un contesto storico a cavallo tra ere mediali. Il nostro punto di vista è costantemente legato a quello dei personaggi, avvinghiati alla macchina da presa personalizzata con microfono integrato di Martha, nell’implacabile, ossessiva necessità di documentare, di raccontare, di lasciare un’eredità ai posteri, per rimanere consapevoli della loro storia passata, stabile, reale, immutabile. Formato quadrato e bianco e nero di grana graffiante. Immagini di repertorio che si legano con quelle di fiction, perdendosi tra i meandri della storia del cinema in citazioni, suggestioni, retaggi. Un valzer visivo senza sosta (contrappuntato dal nero più nero della fine di innumerevoli bobine di celluloide) che storce i personaggi, li sgretola, li menomata, come sottolineava Béla Balázs riportando la testimonianza di una governante alla sua prima esperienza in sala. Ecco la magia del cinema e i suoi maghi, capaci di predire il futuro e scolpire il passato. E noi rimaniamo a guardare, spettatori di noi stessi. Ground control to Major T(h)om sembra cantare Bowie direttamente alla sua esploratrice, moderno Magellano del tempo, o forse novello Icaro, troppo assetata di pace per non rendersi conto di star facendo il gioco della guerra. Allontanarsi dal problema spesso ci conduce dritti a esso.