L’ombra di Caravaggio recensione film di Michele Placido con Louis Garrel, Isabelle Huppert, Micaela Ramazzotti e Riccardo Scamarcio
Il nuovo progetto di Michele Placido, L’ombra di Caravaggio (sezione Grand Public), è senza dubbio una delle pellicole più attese di questa 17esima festa del cinema di Roma, dove il regista pugliese porta un biopic atipico sulla controversa storia di Michelangelo Merisi. Prima di addentrarci nella disamina critica dell’opera, occorre riconoscere un particolare coraggio a Michele Placido, il quale sceglie di girare un film davvero ambizioso, all’interno di un sistema produttivo a dir poco ostico.
Per ripercorrere l’affascinante parabola esistenziale di Caravaggio, Placido e sceneggiatori impostano la narrazione come una scrupolosa indagine dell’Ombra – integerrimo prete interpretato da Louis Garrel – che ripercorrerà con svariati interrogatori la storia dell’artista lombardo. La struttura narrativa prescelta, in cui la linea temporale dell’indagine si alterna a quella degli gli avvenimenti narrati, trova da subito un piacevole equilibrio, riuscendo a selezionare con efficacia i momenti più significativi della tormentata biografia.
La sceneggiatura appare come il fiore all’occhiello della produzione, grazie ad un prezioso bilanciamento degli elementi presenti. In poco meno di due ore, L’ombra di Caravaggio riesce a contenere gli episodi fondamentali della vita del pittore, l’approfondimento psicologico e creativo dietro alla sua attività artistica, un accennato, ma affascinante affresco della Roma di fine Cinquecento e svariate sezioni dedicate ai dipinti più espressivi dell’arte di Caravaggio. Oltre a qualche sporadica eccezione, l’intero cast svolge un lavoro impeccabile, con la presenza di qualche prevedibile picco: Louis Garrel e Isabelle Huppert volano alto e Riccardo Scamarcio lavora tra immaginazione e immedesimazione per plasmare scena dopo scena la misteriosa personalità del protagonista.
L’apparato formale del film vive momenti altalenanti, tra inquadrature degne del pittore rappresentato e altre in cui si fa sentire una certa incongruenza fotografica. Difatti, nonostante ci saremmo aspettati esattamente il contrario, non è tanto nell’aspetto visivo e scenografico che il film conosce il suo principale valore, quanto più nel vero e proprio comunicare un virtuoso messaggio culturale. Nel farlo, Placido si serve di ogni singola componente profilmica: da un registro linguistico viscerale – con uso smodato di parolacce e dialetto – al vero e proprio motore drammaturgico della vicenda, L’ombra di Caravaggio sembra voler trasmettere un solo messaggio: la pittura, per Michelangelo Merisi, era l’unico vero mezzo per rappresentare la realtà così come le persone la percepivano e soltanto la sua morte avrebbe permesso alla chiesa di Roma di disinnescare quel minaccioso grido di autenticità, che le sue opere d’arte diffondevano nel popolo.
È cosi che Placido, Scamarcio e il resto della troupe, confezionano un film importante, dove, più che la biografia di Caravaggio, sono sensibilità e intelligenza emotiva a porsi prepotentemente al centro degli equilibri drammaturgici.