Lubo recensione film di Giorgio Diritti con Franz Rogowski, Christophe Sermet, Valentina Bellè, Noémi Besedes e Cecilia Steiner [Anteprima]
Con il suo ultimo film Lubo, in concorso all’ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Giorgio Diritti ci trascina in un capitolo oscuro e poco conosciuto della Svizzera.
Tratto dal romanzo Il Seminatore di Mario Cavatore, il film segue la vita di Lubo Moser, un nomade di etnia Jenish, negli anni del Secondo conflitto mondiale.
Il protagonista, interpretato da Franz Rogowski, è un talentuoso artista di strada la cui vita prende una svolta tragica quando, nel 1939, viene reclutato dall’esercito svizzero per difendere i confini nazionali.
Mentre si trova al fronte scopre che i tre figli sono stati strappati alla moglie e sono stati affidati come parte del progetto “Kinder der Landstraße” della fondazione Stiftung Pro Juventute, una politica di allontanamento forzato di bambini appartenenti al gruppo Jenish con lo scopo, come affermato dalla fondazione stessa, di “trasformare i bambini di famiglie nomadi in persone sedentarie e laboriose”.
Questo evento traumatico lo spingerà a una ricerca incessante dei figli e della giustizia che sembra continuamente sfuggirgli.
Nonostante alcune sfide nella narrazione, Lubo è un viaggio emozionante e struggente attraverso la storia della Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale
La narrazione è estremamente particolareggiata, con un’enfasi significativa sulla prima parte, che racconta la separazione dalla famiglia e le difficoltà che Lubo si trova ad affrontare durante il servizio militare. Sebbene questa sezione sia essenziale per comprendere il contesto storico, ricostruito impeccabilmente, talvolta sembra rallentare il ritmo e frammentarne il racconto: troviamo momenti intensi che si alternano a momenti più scialbi e talvolta superflui che contribuiscono all’eccessiva durata complessiva del film (180 minuti).
Il film avrebbe sicuramente tratto beneficio da una narrazione più fluida, considerato che pone l’accento su azioni singole la cui motivazione è spesso poco chiara, rendendo difficile l’identificazione con il protagonista e limitando l’efficacia della storia nel comunicare l’ingiustizia subita.
La fotografia di Benjamin Maier è straordinaria, differenziando la fase iniziale della storia dal resto del film attraverso scelte efficaci. Le condizioni atmosferiche grigie e nebbiose, unite ai lumi ad olio negli interni, riescono a creare un’atmosfera suggestiva che riflette la drammaticità della storia (effetto che Diritti era già brillantemente riuscito ad ottenere nel biopic de 2020 sul pittore Antonio Ligabue, Volevo nascondermi).
Franz Rogowski, volto ormai noto anche nel nostro cinema grazie al successo di Freaks Out (2021), offre un’interpretazione straordinaria nei panni del protagonista, catturando magistralmente il fascino intrinseco del personaggio e comunicando efficacemente le complesse emozioni che attraversano il suo animo.
Complessivamente, nonostante la dilatazione eccessiva dell’intero arco narrativo, Lubo è un film ben costruito, che ci ricorda l’importanza di dare voce alle storie dimenticate e di combattere per la giustizia, anche quando sembra impossibile.
In un contesto odierno in cui casi di razzismo, omofobia e paura del diverso dilagano, il film offre sicuramente uno spunto di riflessione e un monito importante per il futuro.