L’uomo sulla strada recensione film di Gianluca Mangiasciutti con Aurora Giovinazzo, Lorenzo Richelmy, Jozef Gjura e Astrid Casali
Presentato in anteprima mondiale alla 20° edizione di Alice nella città, rassegna cinematografica parallela alla 17° Festa del Cinema di Roma, L’uomo sulla strada è l’esordio al lungometraggio di Gianluca Mangiasciutti, giovane regista romano classe 1977 e autore di sette premiatissimi cortometraggi, tra i quali Butterfly, Je Ne Veux Pas Mourir e A girl like you.
L’uomo sulla strada conquista e sorprende, dimostrandosi un ottimo esempio di cinema noir – e per certi versi thriller erotico – nostrano che nel rifarsi, almeno apparentemente, ad alcuni maestri del genere (su tutti Adrian Lyne), riesce nell’impresa di trovare una propria impronta, una voce ed uno stile tali da risultare realmente convincente.
Ciò che in primo luogo differenzia e colpisce di questo film è l’ambientazione, estranea alla solita romanità di molto cinema italiano recente, muovendosi tra i luoghi gelidi, cupi e tenebrosi di un nord Italia boschivo, fatto di lingue d’asfalto strette e rovinate immerse nella natura e poi laghi, casali e fabbriche nel bel mezzo del nulla.
Interessante questo alternarsi di natura e mondo urbano, all’interno del quale non vi è vita, soltanto duro lavoro, fatica e meccanicità. Mentre nella natura tutto accade perché è il caso (o più probabilmente il caos) a volerlo. La morte nella natura si differenzia da quella nel contesto urbano per un’unica ma fondamentale ragione: la solitudine.
Chi muore in mezzo agli altri viene soccorso e circondato (e osservato), mentre chi muore solo, specie in un luogo sperduto, resta invece abbandonato, mai realmente dimenticato e confinato a quel luogo che nel tempo diviene dell’anima e del ricordo. Quel ricordo impossibile da cancellare, inciso nella memoria, così come una cicatrice resta sulla pelle, senza mai smettere di causare dolore.
Ecco dunque un padre e una figlia che cercano funghi in un bosco fitto e autunnale e un gioco di crescita e sopravvivenza durante il quale il genitore svanisce, dando indicazioni di distanza e posizione con l’uso esclusivo della voce – un grido – permettendo alla giovane, Irene, che ha soltanto otto anni, di imboccare il giusto sentiero fino a raggiungerlo. Tutto cambia nel momento in cui il gioco cessa d’esistere e quel grido distante viene mozzato da un terribile e inaspettato incidente d’auto.
La sparizione non è più ludica, bensì concreta, reale e mortifera. Qualcuno investe e uccide il padre di Irene, omettendo di soccorrerlo e dandosi alla fuga, non prima di lasciarsi – volente o nolente – osservare dalla bambina immobile e sgomenta.
Trascorrono alcuni anni e quella bambina, alla quale è stata strappata la figura paterna fin troppo presto, reagisce come nei racconti più classici di questo filone, con la rabbia e l’indolenza.
Irene non tiene più al suo corpo, lo svende per certi versi, dandosi al primo uomo capace di osservarla. Un grido di aiuto il suo, una consapevolezza tragica e disperata che trova la sua logica di sopravvivenza nell’annullarsi, nella cancellazione dell’orgoglio e della dignità. Irene non è più sé stessa. Vorrebbe nuotare a livello agonistico ma la rabbia non le permette di farlo, così come vorrebbe dimenticare quel volto all’interno dell’auto che la memoria non le ha mai permesso di cancellare, costringendola a disegnarlo su di un blocco appunti ad ogni casuale osservazione di figura maschile nell’ambiente che la circonda.
Fino all’incontro con Michele, un giovane ingegnere tenebroso e inevitabilmente attraente che è capo della fabbrica all’interno della quale Irene viene assunta una volta abbandonata la scuola. Michele però non è un brav’uomo, è l’omicida del padre di Irene e, pur consapevole dell’identità della ragazza, intraprende con lei una relazione tormentata, morbosa e amorosa di grande intensità erotica.
Gianluca Mangiasciutti in regia, e i due sceneggiatori Serena Cervoni e Mariano Di Nardo giocano con le logiche del noir, presentando un’indagine questa volta emotiva, di reale ricerca del colpevole, operata non da più dal classico investigatore o detective tormentato e dal passato oscuro e sviato dalla femme fatale di turno, piuttosto da una giovane donna.
Irene è infatti convinta che la soluzione dell’omicidio del padre possa garantirle una volta per tutte tranquillità e stabilità, nonostante perda parte della sua concentrazione a causa di un incontro emotivo – e forse in seguito anche sessuale – con la figura che fin dal primo momento sappiamo essere il colpevole, l’uomo che a tutti gli effetti ha ridotto la sua vita a quelle condizioni e che si rivela incapace di confessare la verità.
L’uomo sulla strada è, come già detto, un ottimo esempio di cinema noir, all’interno del quale oscurità, ombre, minaccia, disperazione e speranza si fondono e confondono, dando vita a due personaggi ben costruiti e che, grazie alla loro moralità così distinta, solida e incrollabile, conquistano e sorprendono anche lo spettatore meno interessato al genere di riferimento e che si ritroverà ben presto a legare con loro e con queste dinamiche, tanto da viverne appieno la tensione.
Un film certamente anomalo, intrigante e seducente, tanto per la chimica tra i due interpreti principali – una fenomenale e ammaliante Aurora Giovinazzo, ed un sempre convincente e perfido Lorenzo Richelmy – quanto per il lavoro simbolico e fortemente citazionista operato sulla scenografia (a cura di Francesca Bocca) e ambientazione del film (di grande valore la fotografia di Luca Ciuti).
Il design di queste abitazioni postmoderne e dalle forme bizzarre immerse nella natura ricorda il miglior Lynch, così come le ambientazioni boschive e l’ambiguità morale e di tensione sessuale e di violenza tra i due protagonisti sembrano ripercorrere la cinematografia di autori estremamente differenti tra loro ma di grandissimo impatto come quella del precedentemente citato Adrian Lyne, e ancora Atom Egoyan, Debra Granik, Tom Ford e Denis Villeneuve.
L’uomo sulla strada non è senza dubbio un film esente da difetti, ma due interpretazioni così convincenti non si vedevano da tempo, così come la scelta di un finale di tale coraggio si è rivelata la mossa migliore per rendere l’esordio di Mangiasciutti uno di quei titoli da non perdere.
Distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Eagle Pictures, a partire dal 7 dicembre 2022.