Macbeth recensione film di Joel Coen con Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Corey Hawkins, Harry Melling e Brendan Gleeson
Il Macbeth è molto probabilmente una delle tragedie più trasposte al cinema di William Shakespeare, spesso diretto da grandi registi come: Orson Welles (il primo a portare sullo schermo il dramma shakespeariano), Akira Kurosawa, Roman Polanski e Béla Tarr; a volte anche da discreti autori come Justin Kurzel. Insomma, il Macbeth è una tragedia che si presta molto ad adattamenti cinematografici, sia per il contesto storico sia per l’ambiente scenografico.
Una tragedia in un certo senso orrorifica, che incute spavento e tensione dall’inizio alla fine, senza mai un attimo di tregua. A far paura è la follia di un uomo (Denzel Washington) con deliri di onnipotenza condannato a morte certa, spalleggiato dalla moglie (Frances McDormand), nella sua ascesa al trono, apparentemente dismessa, ma al tempo stesso subdola e perfida. Un uomo che volle farsi Re (le streghe glielo avevano predetto) ad ogni costo, a tal punto da diventare pazzo e perdere il controllo della propria vita e di quella dei suoi cari.
Grazie ad A24 (ormai nota casa di produzione di film premiati e apprezzati in tutto il mondo) e al servizio streaming di Apple, il Macbeth di Shakespeare ha avuto una nuova “immagine” con la regia di Joel Coen (per la prima volta da solo, il fratello Ethan ha annunciato tempo fa che avrebbe smesso di lavorare nel mondo del cinema in qualità di regista) e avvalendosi di Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Harry Melling e Brendan Gleeson come attori del cast principale.
Il Macbeth di Joel Coen (in originale The Tragedy of Macbeth) assomiglia per larghi tratti più ad un’opera teatrale che ad un lungometraggio cinematografico, il luogo dove si svolgono gli avvenimenti sembra un palcoscenico perfetto per gli attori pronti ad entrare in scena e a trasmettere ogni singolo stato d’animo. Un mettersi alla prova con se stessi e con lo spettatore, aspettando che cali il sipario per svelare le vere identità nascoste sotto le macerie di un mondo perduto e sommerso.
Teatro e cinema formano un connubio vincente nel film del regista di Fargo, Il grande Leobowski, L’uomo che non c’era e Non è un paese per vecchi, giusto per citarne alcuni tra i più famosi, andando oltre il mero concetto di componimento teatrale filmato, riuscendo nell’impresa di straniare lo spettatore al punto da confondergli le idee. Quello che stiamo vedendo è possibile da percepire quasi in presa diretta o è tutto veicolato attraverso un “doppio schermo”, ovvero sia la macchina da presa ed il dispositivo video che ne permette la riproduzione del girato?
Per fare in modo che l’effetto straniante abbia un senso, Joel Coen e Bruno Delbonnel (già direttore della fotografia per i fratelli Coen in A proposito di Davis e nel film western commedia targato Netflix, La ballata di Buster Scruggs) hanno deciso di adoperare sin dal principio, il bianco e nero per restituire alla tragedia di Shakespeare quel valore antico posseduto dai film di Welles e Kurosawa, come a voler cercare un ponte a livello di immagini e di suggestioni con il passato. Un b/n sfumato e ombroso certamente non nuovo (vedasi quello utilizzato in L’uomo che non c’era), ma efficace per ciò che viene narrato.
Un film che può sembrare dunque privo di energia e vigore, talvolta un po’ misero nelle soluzioni narrative rispetto al testo di partenza, per fortuna non è assolutamente così, anzi dimostra di essere ricercato e fedele al dramma tanto quanto avrebbe voluto Shakespeare, anche nella scelta dei costumi dei personaggi. Bellissima poi è l’intesa creatasi tra Washington e McDormand durante le riprese e assai lampante anche all’intero del lungometraggio.
Joel Coen non solo ha rispettato e onorato la tragedia shakespeariana, ma ne ha dato nuova linfa vitale facendo interpretare Lord Macbeth ad un attore di colore, simbolo di innovazione e di progresso (la questione black arcinota non è da ritrovarsi nello schema produttivo del film, perché scelte di questo tipo sono figlie di una visione e di uno stile puramente coeniano scevro da ogni tipo di buonismo forzato e da imposizioni delle major in ossequio ai canoni odierni).
Non tutto ciò che luccica diventa oro: ogni tanto si nota una certa predisposizione nel ricercare l’inquadratura perfetta (d’altronde è pur sempre un lungometraggio prodotto dalla A24, i più esperti sapranno il loro modus operandi), l’immagine precisa per un quadro, nonostante ciò la mano e l’estro del regista americano sono evidenti nelle sfumature e nei toni del film.
Il Macbeth coeniano è un film fatto più di ombre che di luci, ma di indubbio fascino e mistero, grazie anche a delle prove attoriali assai convincenti e coinvolgenti.
Joel Coen dimostra di non essere solo autore graffiante e raffinato come è solitamente riconosciuto dai più, ma anche tenebroso e impetuosamente drammatico.
Che si alzi il sipario!