Marcel the Shell

Marcel the Shell recensione film di Dean Fleischer-Camp con Jenny Slate

La recensione di Marcel the Shell, un ibrido tra animazione e live action candidato agli Oscar 2023

Marcel the Shell recensione film di Dean Fleischer-Camp con Jenny Slate, Isabella Rosselini, Rosa Salazar, Thomas Mann, Nathan Fielder e Lesley Stahl

Crescere non è facile: il cinema ce lo ricorda costantemente. Le qualità pervasive del suo incedere narrativo permettono di raccontare storie dell’altro mondo che, in qualche modo, ci colpiscono nel profondo, permettendo di identificarci anche con le più bizzarre delle vicende. Merito dell’umanizzazione delle figure che prendono parte a esse, senza dubbio (al livello che pure un sasso con un paio di occhi finti scaturisce qualcosa in noi), ma anche della natura emozionale del mezzo scelto per comunicare la propria storia. Un film ci interpella, ci legge, scruta le nostre forze e le nostre debolezze per poi colpire dove siamo più scoperti. Non esistono percezioni identiche dello stesso tessuto filmico: siamo noi, con il nostro vissuto, le nostre esperienze, le nostre gioie e dolori a costruire l’effetto riverberante che ci scuote e ci stravolge. Ogni film ha, però, un numero di colpi limitato: non può colpire tutti allo stesso modo o nello stesso momento. A volte, manca il bersaglio, ma non è tanto colpa del film in sé, quanto dell’assenza di una traiettoria di tiro che penetri l’aura emozionale dello spettatore. È quanto ci è capitato di provare con Marcel the Shell, una pellicola ibrida, che i più possono percepire come live action, ma che (come prova la candidatura al premio Oscar come miglior film d’animazione) live action non è.

Marcel the Shell recensione film di Dean Fleischer-Camp con Jenny Slate
Marcel the Shell di Dean Fleischer-Camp con Jenny Slate, Isabella Rosselini e Rosa Salazar (Credits: Lucky Red/Universal Pictures)

Il film, che segue la vita adattiva di Marcel (Jenny Slate), una conchiglia senziente con un occhio e le scarpe, è impostato come un mockumentary (ovvero, ha gli stilemi espressivi di un documentario, ma è in totale un’opera di finzione). Il regista del documentario (Dean Fleischer-Camp, che è anche il regista del film) si è impegnato nell’impresa di seguire la stramba e fenomenale vita del piccolo Marcel, che vive insieme alla nonna Connie (Isabella Rossellini) in una casa divenuta da poco un bed and breakfast. La conchiglia si distingue immediatamente per la sua inventiva e scaltrezza, non solo in merito alle normali faccende domestiche (che, nel suo caso, sono più mansioni fondamentali per la sopravvivenza), ma anche in ambito comunicativo. Scoprendo il suo stile di vita, le sue invenzioni e il suo carattere curioso ma accorto, il documentario su Marcel si trasforma man mano (come quasi sempre accade con documentari di questo tipo) in quello sulla persona dietro la macchina da presa. Perché è lì? Perché tutto questo interesse per una conchiglia che parla? Cosa nasconde veramente? Questo e altri misteri sono alla base del film, ma non vi aspettate un giallo o un thriller. Tutto in Marcel the Shell è dolce come il miele che il giovane carapace usa per scalare le pareti.

L'opera di Dean Fleischer-Camp
L’opera di Dean Fleischer-Camp candidata all’Oscar come miglior film d’animazione (Credits: Lucky Red/Universal Pictures)

A fare da contrappeso alla tenerezza che pervade la pellicola troviamo un comparto tecnico che lascia sbigottiti, non tanto per l’approccio stilistico o per la destrezza registica, quanto per l’incredibile commistione tra riprese reali e stop-motion. Il film, per la maggior parte, presenta quegli scomposti movimenti di macchina a mano che tanto piacciono al genere documentario (danno quel tocco di tangibilità del reale che, agli occhi del pubblico, conferiscono immediatamente credibilità a quanto mostrato). Questi, però, devono fare i conti con la frammentarietà dei movimenti dei personaggi in passo uno che, per loro natura, devono essere scomposti in singoli fotogrammi. È sicuramente un processo fattibile, grazie anche alle innumerevoli possibilità tecniche che si hanno al giorno d’oggi. Tuttavia, mentre ti trovi lì, in una sala buia gremita di persone che fissano uno schermo e, pian piano, inizi a entrare nel tessuto stesso del cinematografico, quel procedimento artificioso che senz’altro soggiace il risultato finale proposto, d’un tratto, scompare. E quando, ogni tanto, torni a pensare in modo razionale, rimani senza parole, cercando di comprendere come siano riusciti a ottenere un effetto simile. Se ci si pensa con attenzione (o si va a scavare nei dietro le quinte del film), bene o male si riesce a svelare il trucco. Ma in quel momento, in quel contesto assolutamente da “altrove”, vuoi credere, almeno per un po’, che quella magia sia, in effetti, reale.

Sintesi

Scrivere una recensione per un film come Marcel the Shell non è semplice. La sua confezione è perfetta, immacolata, potenzialmente inarrestabile e dedita al credo della “lacrima facile”. Eppure, il film ha mancato uno dei suoi bersagli. La sua raffica di proiettili ha sibilato vicino alle nostre orecchie, colpendo chi avevamo intorno, ma lasciandoci, nostro malgrado, incolumi, impassibili, indifferenti. Come giudicare un film che non ci ha toccato? Che è passato come un’automobilista impaziente quando scatta il giallo? Bisogna entrare completamente in modalità oggettiva? Staccarsi dalla percezione della pellicola e dare un freddo e calcolato giudizio tecnico? Ma senza un minimo di soggettività non si perde la specificità del commento? Che senso avrebbe la nostra professione se non ci fosse il vissuto dell’individuo a guidarne le parole che diamo in pasto alla platea di lettori? La società moderna richiede un voto, una sequenza numerica o iconica, con stelle, punti, barre di riempimento; qualcosa a cui aggrapparsi velocemente per una scelta già fatta a priori, fulcro di un dibattito sordo, dove è sempre il proprio parere l’unico condivisibile. Ma il voto è molto più di un numero da sfoggiare o contestare. È la percezione stessa di un individuo. Come nel sostrato di un film a volte ritroviamo noi stessi, così nel giudizio grafico che diamo a una qualsiasi cosa si nasconde parte di noi, della nostra storia, di quello che ci è successo la mattina come quello che ci ha colpito quando eravamo poco più che neonati. Il voto non è un giudizio freddo. Consapevoli o meno, in quel secco numero o quella piccola stella raccontiamo una storia; ci esponiamo come identità individuali di una collettività omologante. Per questo due voti, pur essendo identici, non sono mai realmente uguali. Per questo sentiamo la necessità, prima di ogni altra cosa, di giustificare le nostre convinzioni. Perché sappiamo, nel profondo, che un numero, al di fuori dal suo contesto, non ha alcun significato.

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