Martin Eden recensione del film di Pietro Marcello con Luca Marinelli, Jessica Cressy, Carlo Cecchi, Vincenzo Nemolato e Denise Sardisco
Quanto un’opera letteraria può essere urgente e giusta, non viene dimostrato in nessun modo migliore che attualizzandola e declinandola attraverso l’occhio del cinema. Tanto più il film riuscirà ad essere attuale, quanto più l’opera è grande, anche se non è certo facile tenere il polso di una tale operazione: e ci sono vari modi per farlo, per rendere moderno il tema o meglio renderlo necessario.
Martin Eden (presentato a Venezia 76 in Concorso, insieme a Il sindaco del Rione Sanità, anche questo da un testo, questa volta teatrale di Edoardo De Filippo) porta la firma di Pietro Marcello, alla sua opera seconda su grande schermo ma prima nella fiction: ed è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Jack London, trasposto dall’Oakland californiana dei primi del Novecento alla Napoli dei primi anni del ventesimo secolo. Racconto morale, trattato filosofico politico, romanzo di formazione, Martin Eden è una delle opere meno conosciute di London eppure forse una delle sue migliori, di certo quella che ancora conserva una forza propulsiva notevole e senza sconti, nel suo essere centrifuga di concetti che risuonano ancora oggi di un’attualità terrificante.
Martin è un’anima che cola a picco, in lui c’è tutta la confusione dei nostri tempi nella quale siamo tutti immersi: e in lui si concentrano il tradimento della classe di appartenenza ma anche una bruciante voglia di riscatto, rendendolo un personaggio profondamente contemporaneo e fortemente problematico. E non è marginale neanche un sottotesto, neanche troppo velato, a quanto si è disposti a sacrificare di sé stessi sull’altare dell’industria culturale; perché la storia di Martin, in fondo, è anche la storia dello stesso Jack London (in tanti, a torto o a ragione, hanno letto nel suicidio del personaggio il supposto suicidio dello scrittore, mai accertato del tutto) e di tantissimi, troppi, personaggi dello showbiz che una volta raggiunto il successo, non riuscendo a reggerne il peso ideologico e psicologico, si sono suicidati.
Tutto questo non fa che rendere ancora più illuminante il testo originale, che mettendo così bene a fuoco dinamiche sociali del Novecento riesce a leggere il futuro, rendendo stupefacente la brillantezza dell’autore mentre disseziona le strutture del suo – ma che è anche nostro – tempo. Ha fatto quindi bene Marcello a coglierne appieno la folgorante modernità, riuscendo anche nell’impresa di traslare le dinamiche narrative da San Francisco a Napoli, centrando appieno diversi punti: non ultimo, quello di rivelare una cultura marinara italiana nascosta, e seguire fino in fondo le traiettorie dell’ascesa e caduta della società borghese individualista e positivista che nel passaggio di secolo sembrava aver trovato una sintesi ideologica definitiva.
Lo sguardo di Marcello è poi quello di un cinema alchemico, imprevisto e imprevedibile, analitico ed abile ma allo stesso tempo magmatico e voluttuoso, nel momento in cui, con una premiatissima esperienza da documentarista, mescola senza soluzione di continuità filmati di repertorio e purissima fiction, e in questo modo raggiunge due risultati. Il primo è quello dello straniamento: lo spettatore resta avviluppato da una messa in scena sontuosa ma frastornante, non ritrovando(si in) una dimensione temporale univoca, aggiungendo l’uso del nome originale – Martin Eden, appunto – californiano con il consequenziale effetto sonoro stridente nella Napoli del 1900.
La linearità temporale della storia viene infranta, e tutto sembra svolgersi in un eterno momento di stasi catturato tra due guerre; la scenografia rimanda ad un preciso periodo storico, l’abbigliamento invece cambia a seconda delle necessità di scrittura e psicologiche (la famiglia Orsini sembra vivere nell’Ottocento dei pizzi e dei merletti durante le merende e le lezioni di piano e poesia, la famiglia Eden ristagna in un dopoguerra da anni Quaranta).
Tutto mira allo spaesamento sensoriale e logico: la “modernità” per Marcello non è altro che un apparato di simboli indecifrabili, e allo stesso tempo ogni segno ha un senso e rimanda ad una precisa collocazione emotiva e psichica. Marcello riesce allora a tessere un film prezioso e stratificato pur rimanendo nei territori narrativi della passione, facendo calzare alla storia italiana riflessioni politiche e filosofiche che rendono ancora più complesso e forse da scoprire tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle, e che costruisce un presente incerto. Sicuri che il Novecento sia ancora di là da finire.
Gianlorenzo