Memory House (Casa de Antiguidades) recensione film di João Paulo Miranda Maria con Antonio Pitanga e Ana Flavia Cavalcanti al Torino Film Festival 38
Memory House (Casa de Antiguidades), in concorso alla 38° edizione del Torino Film Festival, è la storia di un uomo anziano, nero, solo, senza famiglia o amici e della sua esistenza quotidiana in un ambiente al quale sente di non appartenere e dal quale è sostanzialmente rifiutato.
Cristovam, originario delle zone rurali del nord-est del Brasile, si trasferisce in una città del sud, una ricca ex colonia austriaca, per lavorare come operaio in un caseificio rilevato da un’azienda tedesca. Costantemente a contatto con persone xenofobe e conservatrici, il protagonista si sente estraneo rispetto alla comunità e profondamente solo. L’uomo vive in una condizione di costante straniamento e di desolazione umana.
Gli unici compagni delle sue giornate dopo il lavoro sono un cane senza una zampa o una birra ogni tanto al fetido bar del luogo. Sono gli animali (il cane, le mucche del caseificio) gli unici esseri che sembrano mostrare al vecchio una traccia di bontà, non certo i suoi simili. Quando scopre una casa abbandonata piena di oggetti e maschere che lo riportano alle sue origini, decide di trasferirsi in quel luogo dove, piano piano, i ricordi acquisiscono potenza e sembrano prendere vita, spingendolo verso una trasformazione radicale.
Cristovam (interpretato dall’ottimo Antonio Pitanga) attraverso il medium della casa abbandonata, si connette alle proprie radici, alla propria divinità e al mondo animale, trasformandosi in una figura onirica a metà tra un toro e un vaquero, in una rappresentazione che affonda nell’humus della Santeria.
Un richiamo alle origini dell’uomo, nelle quale gli elementi dell’umano, del divino e del naturale si compenetravano gli uni nelle altre, una critica severa nei confronti di una società che ci vuole disgregati e disillusi.
Memory House (Casa de Antiguidades) affronta forse troppi temi (contrasto nord-sud, ricchi-poveri, il razzismo che permea a tutt’oggi la società brasiliana…) componendo il ritratto di un anziano, sorta di Umberto D. ai tropici, vissuto come una zavorra da una società frammentata, incattivita ed egoista.
Cristovam diviene l’oggetto di scherzi e crudeltà da parte di una banda di ragazzini e di un gruppo di adolescenti. In fabbrica e al bar è quasi un invisibile e rimane annichilito da una mancanza cronica di amore e compassione. Mancanza che lo porterà perfino a rompere i rapporti con l’unica persona che gli aveva mostrato comprensione e affetto.
A lungo andare, tutto questo lo porterà a rifuggire dalla realtà per ripararsi in una realtà tutta sua, fino a conseguenze drammatiche e impreviste.
Il regista João Paulo Miranda Maria dimostra coraggio nel cercare di rappresentare le necrosi e la devastazione della società contemporanea, non facendo sconti a nessuno e confezionando una trama disturbante che distilla angoscia ad ogni fotogramma, anche grazie ad una fotografia cupa.
Un film che reca omaggi e impronte dal Cane di paglia di Peckinpah al Il nastro bianco di Haneke, nella sua denuncia della sostanziale meschinità di una società che non persegue alcuna idea di inclusività. Il limite della sceneggiatura forse è quello di mettere troppa carne sul fuoco e di investire lo spettatore di tutta la negatività possibile.
Una storia che vuole evidenziare come valga la legge del più forte, in questa giungla crudele che chiamiamo, per convenzione, contemporaneità.