Men recensione film di Alex Garland con Jessie Buckley, Rory Kinnear, Paapa Essiedu, Gayle Rankin, Sarah Twomey, Zak Rothera-Oxley e Sonoya Mizuno
Raccontare la mascolinità tossica attraverso l’horror è un’idea di base stimolante, soprattutto perché il genere si apre a una serie di rimandi metaforici che hanno molto a che fare persino con la psicanalisi. Men rappresenta una lieve cesura nel percorso cinematografico di Alex Garland, che già in Ex Machina e in Annientamento aveva indagato il lato oscuro scegliendo però la fantascienza (distopica). Presentato in anteprima alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultima edizione del Festival di Cannes e previsto in uscita nelle sale italiane a partire dal 24 agosto, il terzo film di Garland conferma la predilezione del suo autore per un cinema fatto di atmosfere, spesso funeste, e di attenzione alle immagini.
La componente narrativa, infatti, è ridotta all’osso e ruota intorno alla scelta di Harper – una Jessie Buckley sempre più a suo agio in ruoli borderline alla Sto pensando di finirla qui – di ritirarsi sola in un villaggio sperduto della campagna inglese per elaborare il suo lutto e (forse) espiarne la colpa. Ma può la natura aiutare a riconciliarsi con se stessi? La sua è una fuga dalla realtà o un percorso di progressiva presa di coscienza? Garland gioca nella prima parte del film con il folk horror, vuole far credere che la minaccia arrivi dall’esterno, che sia il luogo il vero problema, che il rifugio si stia trasformando in realtà in una prigione senza uscita. Paradossalmente è questa la parte che funziona meglio: l’attesa fa crescere la suspense e il dubbio diventa un vero e proprio carburante per la visione. Da un certo punto in poi il messaggio diventa però il vero fulcro del film, il punto di arrivo di uno script che abbandona i punti interrogativi e sceglie di rendere esplicite le proprie intenzioni.
Garland torna continuamente al passato di Harper attraverso i flashback, si distacca dall’atmosfera di tensione creata e trasforma i fantasmi del suo presente in una proiezione mefistofelica del suo vissuto, della sua incapacità di scrollarsi di dosso un evento che l’ha marchiata indelebilmente e che ha fatto mutare il suo rapporto con gli uomini. Da questo momento il film diventa chiaramente a tesi, rimane ancorato al genere ma solo in termini di codici e la tensione lascia gradualmente spazio a una forma di interesse differente, più legata alla comprensione di come si scioglierà l’intrigo.
È nella reiterazione del messaggio il principale punto di debolezza di Men, perché vanifica quella possibilità di crogiolarsi nel dubbio che era la linfa di tutto l’incipit. Rory Kinnear è perfetto come personificazione delle molte maschere che rappresentano il conflitto in atto con la protagonista, in particolare nella sua variante religiosa, con quel maschiocentrismo cattolico (e non solo) che vede nella donna l’eterna Eva, colei che deve convivere con il peccato. Tutte metafore che funzionano e che illustrano lo stato di prostrazione di Harper ma che alla lunga stancano, proprio perché rendono lo sviluppo narrativo piatto e privano il personaggio di una sua psicologia che non sia corrispondente esclusivamente al ruolo che le è stato attribuito. Non esiste più Harper in quanto tale ma la proiezione del suo essere (solo ed esclusivamente) donna.
Men perde così il legame con la sua protagonista e chi guarda il film è portato progressivamente ad abbandonare il coinvolgimento emotivo, a vivere in astratto quello che sta succedendo, perché a contare è soltanto il messaggio. Garland sa girare e persino quando cade nel body horror grandguignolesco più alla Stuart Gordon che alla David Cronenberg riesce a non far deragliare il racconto, a non perdere di credibilità. Ma l’attenzione è già scemata, la suspense si è trasformata in attesa e il dubbio è sparito.
L’horror funziona meglio quando nasconde il sociale nelle sue pieghe, quando il messaggio non si mangia il film, quando la trama è più importante di quello che si vorrebbe dire. Al suo terzo lungometraggio, Garland non riesce a mantenere la barra dritta e si perde in un meccanismo che attrae in maniera ondivaga fino a respingere lo spettatore, a cui restano belle immagini e la sensazione di un’occasione un pochino sprecata.