Michelangelo Antonioni: i migliori film da vedere in occasione dell’anniversario del regista, da Al di là delle nuvole a Zabriskie Point e Blow-Up
Lo spaesaggista. I cinque migliori film di Michelangelo Antonioni
Nato a Ferrara il 29 settembre 1912 e morto a Roma il 30 luglio 2021 dopo aver attraversato e influenzato sei decenni di storia del cinema italiano e mondiale, Michelangelo Antonioni è uno dei maestri indiscussi della settima arte. Sin dal suo primo cortometraggio Gente del Po, una folgorante anticipazione del Neorealismo datata 1943, Antonioni ha tracciato le coordinate di un cinema umanista ma al tempo stesso implacabile, che, in paesaggi dominati da una visualità estrema e da una geometrizzazione costante delle linee di campo, narrava le storie di uomini e di donne alle prese con la loro identità e con le ipocrisie del loro tempo – in una constante dialettica tra il fondale urbano, l’ambiente sociale e le psicologie individuali dei personaggi che descrive.
Dopo aver esordito al lungometraggio nel 1950 con Cronaca di un amore, che avrebbe lanciato anche la diva Lucia Bosè recentemente scomparsa, e dopo aver vinto il Leone d’Argento nel 1955 con Le amiche tratto da Cesare Pavese, Antonioni si sarebbe definitivamente consacrato nelle gerarchie del cinema mondiale nel corso degli anni sessanta: prima con la cosiddetta “trilogia esistenziale”, composta da L’avventura, La notte, Orso d’Oro a Berlino nel 1961, e L’eclisse; poi con Deserto rosso, Leone d’Oro a Venezia nel 1964, il suo primo film a colori; e infine con una trilogia di film girati in lingua inglese, Blow-Up, cult della contestazione e Palma d’Oro nel 1966, il più controverso Zabriskie Point e Professione: reporter, con Jack Nicholson. Il suo ultimo lungometraggio fu Al di là delle nuvole del 1995, girato con la collaborazione di Wim Wenders, ma Antonioni continuò a lavorare sia come regista che come pittore fino agli ultimi anni della sua quasi centenaria vita. Il suo corpus filmico comprende una quindicina di lungometraggi, molti corti e diversi importanti libri e scritti teorici, ma a dover tracciare una selezione sono forse cinque i suoi film più significativi.
Michelangelo Antonioni: i cinque migliori film da vedere
5. Al di là delle nuvole, 1995
Testamentario, liminare, senza dubbio imperfetto, molto più spirituale di tutti i film precedenti – Al di là delle nuvole, diretto da un Antonioni pesantemente debilitato dall’ictus che lo aveva colpito alla fine degli anni ottanta, resta un autentico capolavoro di concezione e di regia. È un film a episodi con una cornice: un regista è alla ricerca di ispirazione per il suo nuovo film; si imbatte in alcune storie, a volte prendendovi parte, altre volte limitandosi a osservare. Fra i maggiori successi al botteghino di un regista certo non appetibile per il grande pubblico, Al di là delle nuvole spicca anche per il suo cast corale, capitanato da John Malkovich nei panni del regista: accanto a lui, in ruoli più o meno brevi, un’infinità di star del cinema europeo ed americano tra cui Fanny Ardant, Jean Reno, Kim Rossi Stuart, Irène Jacob, Peter Weller, Sophie Marceau ed anche due anziani Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau. Al termine del film il regista pronuncia in voice-over la più cristallina dichiarazione della poetica antonioniana: “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino all’immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai.”
4. Deserto rosso, 1964
Il primo film a colori di Antonioni e, in un certo senso, il primo vero film a colori in generale. Nel raccontare la storia di Giuliana, donna in crisi della Ravenna nel pieno del boom economico degli anni sessanta, Antonioni e il suo direttore della fotografia Carlo Di Palma iniziano a codificare le possibilità di quello che in seguito il regista indicherà come una vera e propria “drammaturgia del colore”. Fra nubi tossiche e nebbie aberranti, è innanzitutto il colore a trasmetterci e a tradurre in immagine il senso del disagio della protagonista, la sua totale estraniazione da tutto ciò che lo circonda, il suo disagio umano e sociale. A fare da contraltare a una Ravenna quanto mai fumosa e fantasmatica, una breve scena ambientata su una spiaggia della Sardegna, nella sua purezza naturale, è un’autentica fantasia di evasione fatta pezzo di storia del cinema. Deserto rosso si segnala anche per l’interpretazione semplicemente straordinaria di Monica Vitti, già protagonista o co-protagonista dei tre precedenti film della trilogia esistenziale e a quei tempi compagna e musa del regista ferrarese. Insieme, Antonioni e la Vitti invece che limitarsi ad applicare la psicologia al cinema riescono a fare psicologia col cinema – e sociologia, e pittura, e grande opera teorica.
3. Zabriskie Point, 1971
Vertiginosamente contestato da più parti al momento della sua uscita, Zabriskie Point è il “film americano” di Antonioni, la pellicola con cui il regista si proponeva di affrontare di petto quella controcultura giovanile e tutto l’immaginario visivo hippie che aveva già sfiorato con Blow-Up di pochi anni prima. Prodotto dal leggendario Carlo Ponti nell’ambito di un accordo per tre film di Antonioni per la MGM che ha portato alla realizzazione di alcuni dei più grandi film della storia del cinema, Zabriskie Point rimase leggendario innanzitutto per le modalità della sua realizzazione: dall’amara considerazione che “non conosco un film girato in America da un europeo che sia un capolavoro, non vedo perché dovrei riuscirci proprio io” a una rissa al ristorante fra Antonioni e il compositore John Fahey, il risultato fu il film più poetico e sperimentale di Antonioni, quello più favolistico. Il film ruota intorno all’incontro, fra le gole della Valle della Morte, di due giovani californiani, una segretaria che sta raggiungendo la villa del suo capo e un contestatore in fuga dalla polizia che ha rubato un aeroplanino monoposto: sia la scena dell’amplesso nel noto Zabriskie Point del Deserto del Nevada che il finale che mostra l’esplosione (immaginaria) della villa del capo a Phoenix sono due momenti da pura antologia registica, ulteriormente impreziositi da un’attenta scelta di colonna sonora. Moravia nella sua analisi del film affermava che Zabriskie Point è “una profezia di tipo biblico in forma del film”, che annuncia “l’ipotesi nuova e sconvolgente che un fuoco ‘moralistico’ possa un giorno distruggere la superba Babilonia moderna, cioè gli Stati Uniti”, e certo si tratta di uno dei film più critici, ma al tempo stesso più attenti, nei confronti della cultura capitalistica americana.
2. Professione: reporter, 1975
Un reporter e documentarista, annoiato del suo lavoro e forse della vita, si trova in Africa a girare un reportage sui movimenti di guerriglia del deserto quando, nella squallida pensione dove alloggia, improvvisamente muore un altro europeo che somigliava vagamente a lui. Senza apparente spiegazione, il reporter si finge morto e ruba l’identità dell’altro: solo col tempo, viaggiando per l’Europa, il reporter scoprirà che l’uomo in cui si è “reincarnato” era un trafficante d’armi con rapporti diretti con i guerriglieri che lui da documentarista non riusciva mai a scovare. Distribuito internazionalmente con il titolo di The Passenger, il protagonista Jack Nicholson lo ha sempre indicato come il suo preferito, tra i film da lui interpretati; bellissimo anche il ruolo di Maria Schneider, nota soprattutto per Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, che qui interpreta una ragazza senza nome il cui cammino si incrocia con quello del protagonista David Locke. La scena finale, un piano sequenza ininterrotto di sette minuti girato dal vero con notevoli difficoltà tecniche, è una rappresentazione registica della morte che potrebbe essere senza esagerazioni indicata come l’inquadratura più semiotica e seminale di tutta la storia del cinema. In ogni caso, Professione: reporter è la più bella riflessione filmica sugli anni settanta e sulle contraddizioni del post-Sessantotto.
1. Blow-Up, 1966
Forse solo Stanley Kubrick è riuscito, nello stesso film, a creare un immaginario, generare un notevole successo al botteghino, cogliere appieno lo spirito dei tempi e, nel raccontare una storia, creare una tale stratificazione di concetti che basta a rendere un film una sorta di profondissimo saggio filosofico su pellicola. Blow-Up è questo e forse anche più di questo. Nella Swinging London a un passo dal Sessantotto, Thomas è un annoiato fotografo di moda, che un giorno, bighellonando in un parco, fotografa una realtà forse ben più sinistra di quella che appare a un primo sguardo. Ingrandendo l’immagine, emerge un segreto che doveva sapere: ma il segreto sta in ciò che l’immagine rivela, o in ciò che la tecnica non riesce mai davvero a mostrare? Thomas non tarderà a perdersi nei meandri del reale e, mentre sfuma ogni distinzione tra oggettivo e soggettivo e lui si fa sempre più spaesato, alla fine capisce che non c’è nulla di meglio da fare che unirsi a una partita immaginaria di tennis con una compagnia di saltimbanco e mimi. Dal significato inesauribile e probabilmente indescrivibile a parole, Blow-Up è verosimilmente uno dei più grandi film della storia del cinema.