Michelangelo Frammartino: incontro e Masterclass con il regista de Il buco, Il dono e Le quattro volte durante il Festival dei Popoli 62
Il regista Michelangelo Frammartino racconta l’origine della realizzazione del film Il buco, che nasce dall’incontro con la Calabria (regione dove ha girato tutto quello che ha realizzato ed a cui è legatissimo per via dei suoi genitori, originari di questa terra); in particolare le riprese hanno avuto luogo nella Calabria del nord, in una zona che aveva già iniziato a frequentare per Le quattro volte (2010), suo secondo lungometraggio. È una zona, spiega, che aveva scoperto già alcuni anni fa, intorno al 2006-2007, e che effettivamente pensava di conoscere; questo almeno fino a che non ha scoperto un “secondo paesaggio” – così lo definisce – di questa montagna: quello sotterraneo. Immediatamente, questo mondo sotterraneo, chiamato dal regista “l’oltre”, si configura come il fuoricampo nel cinema: è ciò che sta dietro alla realtà e che non appare in superficie.
Il buco, terzo lungometraggio di Frammartino, presentato in concorso alla 78. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria, trae ispirazione da un’esperienza di speleologia durata qualche anno, in cui le attenzioni e le esplorazioni si sono concentrate sull’Abisso del Bifurto. Per realizzare il film, effettivamente girato nelle cavità e profondità del massiccio, è servito un vero e proprio training specifico, uno studio fisico per imparare a stare in quello spazio che comporta la capacità fisica ma anche mentale di restare molto tempo (addirittura giornate intere) a contatto con il buio e con la profondità.
Nonostante il film sia stato girato ad agosto, in piena estate, in un primo momento era stata valutata anche la possibilità di lavorare in inverno, anche con una piena d’acqua nelle grotte. Frammartino rievoca scherzosamente un curioso aneddoto che ha coinvolto lui in prima persona ed altri tre membri della troupe a ridosso delle riprese, mentre stavano terminando gli ultimi sopralluoghi, ovvero di un giorno in cui sono stati sorpresi da una pioggia inaspettata mentre si trovavano nelle profondità del Bifurto rimanendo, per alcune ore, bloccati – in condizioni di salute per tutti i membri coinvolti – aspettando che la pioggia cessasse e consentisse loro la risalita dalla grotta.
La notizia ha fatto presto il giro della piccola comunità montana fino ad arrivare al telegiornale regionale e finire nell’edizione serale di un telegiornale nazionale. Il regista sottolinea con ironia come, in realtà, contrariamente a quanto avevano fatto credere i telegiornali, nessuno si trovasse effettivamente bloccato o in pericolo: semplicemente la troupe ha aspettato che la pioggia si fermasse per poter riuscire all’aperto. Insiste sui toni esagerati e sensazionalistici riportati dalle edizioni televisive giornalistiche contrapponendole al tono volutamente anti-epico con cui racconta nel suo film l’esplorazione dell’abisso del Bifurto avvenuta nel 1961: pone una grande attenzione sul fatto che questi speleologi vengano rappresentati come dei semplici operai al lavoro.
Procede poi a spiegare il processo di lavorazione del film, che procedeva con una troupe sotterranea composta da sette persone (il regista stesso, Giovanna Giuliani, sceneggiatrice del film ma che aveva anche il compito di scenografa, tre fonici il cui lavoro era quello di sistemare i microfoni e per farlo avevano iniziato anche loro un training speleologico di modo da essere indipendenti e muoversi liberamente, infine due operatori di macchina) e con una troupe esterna, “in superficie”. Definisce gli orari di lavoro di queste due troupe un “fuso orario”: si incontravano solo la domenica, nel giorno di pausa dalle riprese, perché i loro orari non combaciavano mai. Per arrivare alle gallerie, racconta, servivano diverse ore, pertanto gli addetti alla sicurezza erano impegnati nel trasportare il materiale e gli strumenti audio e sonori da una grotta all’altra durante la notte di modo che la mattina fosse già tutto pronto per girare. Una volta arrivati tutti in grotta, venivano predisposte le attrezzature, inviando immagini all’esterno. Il coordinamento con il direttore della fotografia, Renato Berta, avveniva per mezzo di una fibra ottica e, dal gazebo in cui si trovava, aveva a disposizione uno schermo ad alta definizione.
A proposito di Berta, il regista racconta che era stato inizialmente contattato come consulente del film ma che è finito per interessarsi in prima persona al progetto per via del nero: questo nero assoluto che nasconde lo sconosciuto della grotta, la parte inesplorata, doveva essere una presenza molto importante nel film e, di conseguenza, restituito in modo degno. Berta, per il quale il colore nero si configurava come una semplice convenzione (in termini fotografici rappresenta la parte in ombra sottoesposta), decide di intraprendere questa sfida per rendere il colore quasi un personaggio caratteristico della pellicola. Costruisce quindi le lampade, dato che costituivano l’unica fonte di luce per le riprese e le sistema con gelatina a seconda della temperatura di colore desiderata.
Frammartino si sofferma sulla resa dei particolari storici in rapporto alle strumentazioni impiegate dagli speleologi negli anni sessanta: allo stesso modo di quel gruppo di appassionati che compì questa impresa in Calabria, anche gli attori si sono dotati di acetilene e lampade elettriche. L’acetilene, gas che impiegavano i minatori in miniera per capire come muoversi, consentiva di regolare l’illuminazione, mentre le lampade elettriche (realizzate con i fari delle biciclette, cioè con materiale di recupero) no. Altre fonti di luce, sporadiche, all’interno della grotta, sono costituite dalle riviste che gli speleologi lanciano per farsi un’idea della profondità dello spazio, rivista che finiscono per diventare uno strumento per raccontare un’epoca. Il lancio del foglio di carta infiammato obbliga la grotta a rivelarsi ed uno dei concetti fondamentali con cui si misura il film è proprio quello della luce che uccide il buio, in modo violento perché costringe lo spazio inesplorato alla forma di chi lo vede per la prima volta. anche il suono, spiega, è in certa misura uno strumento rivelatore, ma non della stessa carica violenta che porta la luce: finché gli speleologi parlano ed avanzano hanno ancora la possibilità di immaginare la grotta, non avendola vista, invece con la luce anche questa facoltà – seppur minima – di immaginazione viene meno.
Frammartino dichiara infine che ogni esplorazione è in qualche modo sempre fallimentare: lo sfondamento della linea tra conosciuto e sconosciuto porta comunque ad una delusione, dato che andando a scoprire l’inesplorato si avanza sempre con la luce e illuminando si misura e si battezza la grotta, adattandola agli occhi di chi la osserva e modificandone i connotati per sempre.