Mò vi mento – Lira di Achille recensione del film di Francesco Gagliardi e Stefania Capobianco con Enrica Guidi, Giovanni Scifoni, Daniele Monterosi, Benedetta Valanzano, Andrea Roncato, Alvaro Vitali e Tony Sperandeo
No, tranquilli, non c’è nessun errore nel titolo dell’opera prima di Francesco Gagliardi e Stefania Capobianco. È un gioco di parole che racchiude lo spirito di un film che guarda alla realtà politica italiana cercando di comprenderla attraverso la satira.
La commedia, in Italia, è uno dei pochi generi eternamente presente nelle programmazioni dei cinema nazionali a contrastare il monopolio americano. Ha un ruolo sottile nella rappresentazione del nostro Paese che difficilmente le viene riconosciuto, sacrificando arguzia e riflessione sull’altare della risata. Se non si ride, se non si è abbastanza leggeri non si staccano i biglietti e non si trovano i finanziamenti giusti per continuare a produrne. È un bel dilemma, da cui è difficile spesso uscire in maniera brillante. Le intuizioni degne di nota durano lo spazio di un paio di scene, sommerse tra sketch, product placement e branded content.
L’assunto di Mò vi mento – Lira di Achille è talmente semplice da essere praticamente ovvio: L’unico politico onesto è quello che ammette programmaticamente di sparare proclami a caso, tanto da includerli nel proprio slogan elettorale. La domanda da porsi viene altrettanto naturale: è abbastanza per metter su un lungometraggio? Probabilmente no e in soccorso arriva prontamente una storia d’amore che si intreccia con una politica disastrata per portare lo spettatore dall’inizio alla fine del film.
E la politica? E la satira? Il film promette qualcosa che poi non arriva o meglio esaurisce già nel titolo tutto che avrebbe potuto dire. Non basta essere politicamente scorretti mettendo in un calderone luoghi comuni e stereotipi per essere taglienti, non aiuta ricorrere all’amore per contestualizzare una trovata narrativa. Il risultato è un racconto annacquato da cattiverie gratuite senza capo ne coda, tutto giocato sulla forzatura comica e sull’esasperazione delle interpretazioni degli attori.
Qualcuno lo ha definito caso, qualcuno lo ha definito profetico – tenendo conto che la genesi del film è precedente di qualche anno rispetto alla rivoluzione politica del 2018 – ma vuol dire tralasciare il quadro complessivo per soffermarsi su una parte nemmeno troppo importante del film. Non basta nemmeno aver scritturato tre vecchie glorie, in maniera diversa, del cinema italiano come Andrea Roncato, Alvaro Vitali e Tony Sperandeo per aggiungere un tocco di classe ad un cast giovane e semisconosciuto.
Se l’unico spunto di discussione è favorito dal continuo ricorso al gioco di parole che dà il nome alla pellicola, c’è un problema bello grosso. Se non sfiora, inoltre, chi il film lo produce, lo scrive, lo dirige, lo distribuisce e lo interpreta, senza margine di errore si può dire che il peccato è originale e non c’è nessun motivo valido per cui uno spettatore debba scontarne le pene per più di un’ora.