Mothering Sunday recensione film di Eva Husson con Odessa Young, Josh O’Connor, Colin Firth, Olivia Colman, Sope Dìrísù e Glenda Jackson
Ogni festival che si rispetti ha la sua opera introspettiva, dai forti toni melodrammatici, intenzionata a stupire e provocare. Anche la 16° edizione della Festa del Cinema di Roma ne ha uno e risponde al nome di Mothering Sunday. Il film, tratto dal romanzo di Graham Swift, ripercorre la vita di una scrittrice di fama mondiale, Jane Fairchild (Odessa Young) che, durante gli anni ’20 del Novecento, ha servito come cameriera per una facoltosa famiglia inglese.
Attraverso una messa in scena che ha più il sapore del ricordo discontinuo che non della narrazione didascalica, la pellicola tenta di esplorare la figura enigmatica di questa donna, dalla sua relazione “proibita” con Paul Sheringham (Josh O’Connor) al rapporto con il problematico concetto di famiglia.
Il tutto è portato su schermo in modo simbolico, con scene spinte molto più dalla casualità che dalla causalità. Gli eventi si susseguono nella maniera di un pensiero offuscato, un effettivo ricordo mutato dalla mente e dalla distanza temporale.
Seppur proponendo un comparto tecnico lodevole (erede diretto di una tradizione cinematografica britannica che affonda le sue radici molto in profondità) e sfoggiando spudoratamente il suo modo quasi onirico nel narrare questa storia di resilienza e perdita, il film sembra smarrirsi, dando fin troppo risalto al suo aspetto formale e lasciando leggermente in disparte l’intensità delle vicende narrate. Risulta, in definitiva, più evocativo che coeso, cosa che ne dimezza l’impatto significante, spingendo lo spettatore a svolgere egli stesso un lavoro di associazione e comprensione (il che non è affatto un male, ma Mothering Sunday sembra abusare di questo approccio in maniera fin troppo ruffiana).
La pellicola di Eva Husson procede convulsa e scissa, esattamente come un ricordo, proponendo visioni e tensioni che aumentano fino ad arrivare al finale, scandito dalle seducenti e sognanti note di Nils Frahm. Il comparto visivo, però, non cerca di spiccare su tutto, attuando, al contrario, una profonda e significativa collaborazione con le prove d’attore, i cui corpi svestiti scivolano sullo schermo bidimensionale, tra scenografie e paesaggi lontani, quasi distanti dal tempo stesso.