Mystery Train – Martedì notte a Memphis recensione film di Jim Jarmush in edizione restaurata con Masatoshi Nagase, Yûki Kudô, Screamin’ Jay Hawkins, Joe Strummer, Nicoletta Braschi, Elizabeth Bracco, Steve Buscemi e Rick Aviles
Torna nelle sale italiane la pazza notte memphisiana del cult degli Anni ’80: Mystery Train, in una nuova versione restaurata distribuita da Movies Inspired per tutti gli amanti del cinema di nicchia.
42° Festival di Cannes, 1989, in concorso c’è anche Jim Jarmusch, e il premio per il “Contributo Artistico” è tutto suo – è al suo quarto lavoro come filmmaker e stavolta ha presentato un film postmoderno, diverso, ricco di dialoghi ma anche di silenzi e che già presenta situazioni comiche troppo spesso attribuite, dai neofiti, al cinema di Tarantino, quasi come se le avesse inventate lui. Ma c’è anche una strana e quasi inspiegabile nostalgia, condita da tristezza e solitudine.
Un cinema indipendente diverso, il suo, che non ha fretta di dire tutto subito, scandito da musiche jazz e rock e dissolvenze a nero per chiudere sequenze spesso ambientate in piccole porzioni di location, un cinema che è uno dei tanti riflessi dell’America che non sempre unisce tutto il pubblico, poiché costituito da tempi dilatati e scene che a prima vista sembrerebbero non avere chissà quale significato.
L’abbiamo già detto in precedenza, le sue opere presentano personaggi senza mete precise, che vagano alla ricerca di un qualcosa, che tornano o che partono da luoghi ostili e claustrofobici, il più delle volte deserti e quasi in rovina.
Mystery Train è l’ennesimo film ambientato durante un’intera giornata o nottata, compagno di opere iconiche come I guerrieri della notte (1979), Fuori orario e Tutto in una notte (entrambi del 1985), American Graffiti (1973), Collateral (2004), La notte dei morti viventi (1968) e Locke (2013) – un omaggio alla musica tanto amata dal cineasta scrittore e musicista, agli artisti (Elvis è onnipresente) che più l’hanno influenzato e i luoghi che l’hanno segnato, location che fanno da sfondo ad una palese critica alla società americana – può sembrare un cinema spoglio e senza direzione a prima vista, ma che è invece intellettuale e ponderato.
Per la prima volta nel cinema di Jarmusch arrivano i colori di Robby Müller, cinematographer amato da Wim Wenders (ben 6 i film girati insieme; il più famoso, forse, Paris, Texas del 1984) e Lars Von Trier (Le onde del destino (1996) e Dancer in the Dark del 2000). Lo sfondo del film in questione è la città di Memphis, che poi tanto città non sembra mica, forse perché ci troviamo nei suoi sobborghi, l’impressione è infatti quella che sia più simile ad un piccolo paesino diroccato alla Charles Bukowski, con un bar aperto a tutte le ore e un treno sopraelevato “che non fa più fermate”, che scorre a qualsiasi ora del giorno, che percorre il suo personale viaggio, che altro non è se non il viaggio di chi sale e di chi scende.
E a scendere alla stazione, nella prima parte del film, è una coppia di giovanissimi giapponesi, Jun (Masatoshi Nagase) e Mitzuko (Youki Kudoh), che dalla città di Yokohama arrivano a Memphis per visitare i musei e gli Studios dove hanno suonato i più grandi del rock and roll e del blues. La musica condivisa attraverso lo stesso walkman sembra essere l’unica cosa ad unirli veramente (forse fanno a turno nelle scelte musicali, non si sa), perché lei è ossessionata da Elvis e lui preferisce Carl Perkins, tanto da indignarsi davanti alla poca considerazione nei suoi confronti. Lei sprizza gioia da tutti i pori, non le pare vero che si trovino finalmente lì, lui sembra perennemente indracato per chissà quale motivo, non sfoggia mai un sorriso, non capisce una parola d’inglese e ha lo sguardo perennemente serio.
Vagano, come sempre nelle storie di Jarmush.
Portano una valigia zeppa di vestiti sostenendola con un bastone; e noi li seguiamo, carrellata dopo carrellata – sembriamo il terzo personaggio che intraprende lo stesso viaggio, o forse il terzo incomodo che li spia e si fa i fattacci loro – se si muovono anche la macchina da presa si muove, anche noi ci incamminiamo, e si si fermano ci blocchiamo di scatto standogli alle calcagna.
Trovano alloggio in un hotel dopo un noiosissimo tour ai Sun Records, gli stessi Studios dove Junior Parker e Sam Phillips registrarono il brano blues che dà il nome al film, canzone poi ripresa da Elvis nel 1955, nel Lato B di I Forgot to Remember to Forget.
Alla reception ci sono un facchino alle prime armi e un elegantissimo Screamin’ Jay Hawkins, il celeberrimo cantante di I Put a Spell on You, che ne ha visto di tutte i colori durante chissà quanti decenni di esperienza; stanno lì ad aspettare chiunque entri, immobili quasi fossero statue o dipinti di un museo.
I due passano una nottata in intimità; fanno l’amore, poi viene detto qualcosa di sbagliato, entrambi si offendono ma poi si abbracciano e si coccolano, cullati dalle note di Blue Moon, cantata dalla calda e suadente voce del Re, Elvis, che li osserva in un quadro appeso alla parete della stanza.
Il sole del mattino successivo li sveglia e fatti i bagagli è l’ora di lasciare l’hotel e la città, ma poco prima di aprire la porta ecco l’impensabile – uno sparo. Ma è veramente impensabile come cosa? D’altronde, “This is America”, risponde Jun.
Ecco dunque concludersi il primo episodio o prima parte che seguendo una narrazione più o meno simile a quella di 21 grammi (2003) di Iñárritu, continua con altre due storie, tasselli che formeranno il senso generale del tutto alla fine del film.
Luisa, la Nicoletta Braschi di Benigniana memoria, si trova a Memphis per prendere il feretro contenente il suo defunto marito. Firma foglio dopo foglio, telefona a casa e urla in puro stile italiano. Ha da spendere l’intera giornata in città prima di prendere il prossimo volo, al mattino seguente. Cena in una tavola calda alla Twin Peaks e viene avvicinata dal truffatore di turno che le racconta la celebre storia del fantasma di Elvis Presley; in genere lo si vede fare l’autostop e se lo si carica in auto chiede di farsi lasciare al numero 3734, davanti alla sua tenuta, la Graceland.
Il fantasma gli ha detto di un incontro che avrebbe fatto proprio con lei e di come l’italiana gli avrebbe dovuto dare del denaro; e così, dopo avergli sganciato venti dollari, Luisa scappa via per trovare poi rifugio nell’hotel di cui sopra.
Dee Dee (Elizabeth Bracco), si trova già là e sta litigando con la reception – per pagare di meno le due decidono di condividere la stessa stanza.
Impossibile dormire, Dee Dee è logorroica e particolarmente spaventata, si è appena lasciata con il ragazzo e non vede l’ora di raggiungere l’amica a Nanchez al mattino.
Come se non bastasse eccolo apparire il Re, sotto forma di visione fantasmatica che rompe la realtà del film e ricorda David Lynch. Luisa è sconvolta.
Al mattino seguente, poco prima di lasciare la stanza, di nuovo quello sparo.
Stessa linea temporale, ma altra luogo della città; il locale è lo Shades, e il britannico Johnny (Joe Strummer, leader dei The Clash) è ubriaco fradicio perché ha perso il lavoro e Dee Dee l’ha appena lasciato.
È soprannominato Elvis dai suoi amici, per lo stile che sfoggia: basette lunghe, capelli laccati, stivali in pelle.
Ha in mano una pistola e se la punta alla testa diverse volte, è palese quanto sia instabile, tant’è che Will Robinson (Rick Aviles, dieci anni prima che morisse di HIV), suo fedele amico di colore, interviene immediatamente e tranquillizza tutti, poi chiama immediatamente il cognato di Johnny, Charlie (Steve Buscemi), per portarlo a casa.
La pistola sparerà solo due proiettili, comunque, il primo in una drogheria dopo un alterco tra il venditore razzista e i tre, e il secondo al mattino dopo, proprio lo sparo che unisce tutti i personaggi. Perché il trio ha infatti passato la notte a bere nella stanza più logora dell’hotel, la 22; Johnny e Dee Dee sono nello stesso luogo alla stessa ora, e non ne hanno la minima idea.
Come concludere una storia simile? Nel più jarmuschiano dei modi: la coppia di amanti asiatici e Dee Dee salgono sul treno, Luisa prende il volo per l’Italia, e i tre scappano a bordo del pick up mentre vengono menzionati alla radio e la sirena della polizia impazza in sottofondo. Si saranno salvati o la prossima nottata la passeranno in una cella tanto logora quanto la stanza 22?
E l’esperienza memphisiana avrà unito, almeno un po’ di più, Jun e Mitzuko?
Cosa attende al ritorno in patria l’italiana Luisa?
Nanchez sarà lo sfondo di un nuovo amore per Dee Dee?
Jarmusch gioca con lo spettatore, apre il finale e ci interroga, quasi come a chiederci:
E voi? Che treno prenderete domani? Che cammino farete? Starete nella città che vi ha dato i natali o partirete all’avventura verso nuove esperienze di vita?