Nickel Boys recensione film di RaMell Ross con Ethan Herisse, Brandon Wilson, Aunjanue Ellis-Taylor, Daveed Diggs e Hamish Linklater [RoFF19]
Alla 19° edizione della Festa del Cinema di Roma, Alice nella Città apre le porte con un’opera filmica dalle capacità espressive sbalorditive: Nickel Boys, diretto da RaMell Ross e basato sull’omonimo romanzo del 2019 scritto da Colson Whitehead.
Le storie che ascoltiamo sono sempre le stesse. La differenza sta nel modo in cui ci vengono raccontate. I nomi, i luoghi e gli antefatti sono fondamentali, ma nel cinema tutto dipende da come vengono messi in scena. Nickel Boys racconta una storia di abusi, segregazione, crescita e perdita, ma possiamo andare ancora più nel dettaglio: la vita turbolenta di due ragazzi afroamericani all’interno di un riformatorio nel panorama rurale degli Stati Uniti degli anni Sessanta. Sicuramente non un tema nuovo, ma il lavoro svolto è così particolare che questa storia, inflazionata, spesso abusata, appare sorprendentemente inedita.
Le vicende narrate riguardano Elwood (Ethan Herisse), un giovane promettente ragazzo di Tallahassee. Sulla strada per andare al college accetta il passaggio dalla compagnia sbagliata e, come spesso accade a chi viene visto dalla società come una minaccia da debellare o spedire ai confini della “civiltà”, invece di proseguire verso la prestigiosa scuola, finisce in un riformatorio. Qui incontra un altro ragazzo, Trevor (Brandon Wilson), forse l’unico volto amichevole che riesce a trovare all’interno di questa istituzione dalle ombre nere come la pece.
Fino a qui nulla di inaudito. La vera peculiarità di questa pellicola sta nel fatto che, per la gran parte, è girata in soggettiva. Così, seguiamo la vita di Elwood, le sue gioie e i suoi tormenti, attraverso i suoi occhi: vediamo il suo volto riflesso sulla vetrina di un negozio di elettronica, o in un ferro da stiro o sul finestrino del pulmino scolastico.
Poi, questa visione unilaterale del reale cambia improvvisamente, ed entra in gioco il punto di vista di Trevor. Da questo momento inizia una danza visiva ammaliante tra gli sguardi contrapposti dei due protagonisti che ci guida nello spazio anche attraverso dettagli, salti temporali e immagini di repertorio. Questi elementi vanno a comporre un mosaico narrativo sorprendente che, alla fine, si ricuce su sé stesso con una tale naturalezza da lasciare ammutoliti. Sembra di assistere alla ricostruzione mentale di una vita passata, che si intreccia e si perde in se stessa, si ripete, si sgretola, si frammenta e si ricompone. Il tutto con una delicatezza amara che colpisce nel profondo, persino quando la violenza è lasciata fuoricampo (anzi, forse ancora di più, in quel caso).
È un film che si prende il suo tempo, cuoce lo spettatore a fuoco lento, si insinua sottopelle e rimane lì anche dopo che i titoli di coda hanno smesso di scorrere sullo schermo. Quagli sguardi in macchina, che ci rendono protagonisti di quelle malefatte tanto quanto gli sventurati personaggi della storia, hanno un impatto diverso, quasi da videogioco, anche per il modo in cui la camera si muove. Sinuosa e tranquilla (per la maggior parte) scruta attentamente la scena e guida lo sguardo come mai prima. I cambi di fuoco repentini e precisi, che dimostrano tutta la perizia tecnica dietro questo film, lo rendono un’opera la cui complessità è celata con una tale naturalezza da passare inosservata.