Nimic recensione del cortometraggio scritto e diretto da Yorgos Lanthimos con Matt Dillon, Daphné Patakia e Susan Elle presentato al Ravenna Nightmare
Diciotto anni dopo Uranisco Disco (2001), il greco Yorgos Lanthimos torna al cortometraggio con Nimic, un film di dodici minuti ad alto tasso ansiogeno presentato nell’agosto del 2019 a Locarno e ora in concorso nella sezione cortometraggi del Ravenna Nightmare Film Fest 2020. Facendo leva sull’encomiabile versatilità di Matt Dillon (La casa di Jack), il cineasta candidato all’Oscar per La favorita (2018) aggiunge un altro tassello al suo discorso dissacrante su alienazione e tensioni dei nuclei familiari, che da Dogtooth (2009) in poi non ha mai mancato di turbare le platee.
Il cinema di Lanthimos è sempre stato asettica e inquietante estetizzazione di distopie senza tempo in cui i rapporti umani subiscono forti alterazioni da parte di elementi esterni destabilizzanti; ogni personaggio intraprende un impervio percorso di riscoperta del sé mentre viene fagocitato dall’estraniazione indotta dall’ambiente circostante. Tutto ciò è presente pure in questo nuovo lavoro del regista, che aiutato dal minutaggio ridotto dell’azione fa brillare il tutto di un’asciuttezza formale attenta comunque alla psicologia dei protagonisti.
Nimic: sinossi
Matt Dillon interpreta un violoncellista senza nome che vive assieme alla moglie (Susan Elle) e ai figli in un’aggraziata villetta americana. La sua monotona routine mattutina viene scandita tramite montaggio alternato dalle sessioni di prova dell’orchestra di cui è membro, impegnata a ripetere allo sfinimento lo stesso singhiozzante brano di musica classica.
Di ritorno dalle esercitazioni, il musicista incontra in metropolitana una donna dallo sguardo inespressivo (la notevole Daphné Patakia) alla quale chiede l’ora. Dopo un iniziale silenzio imbarazzato, e con grande sorpresa sia per gli spettatori che per il protagonista, la sconosciuta replica con la stessa domanda e inizia a seguire l’uomo sino al talamo nuziale, ripetendone meccanicamente azioni e parole come se fosse un’immagine specchiata.
In un clima di crescente tensione e surrealismo, l’incontro tra il violoncellista e la donna della metropolitana conduce a un epilogo collegato all’idea di circolarità.
Un provocatorio esperimento stilistico
Come Voyage of Time di Terrence Malick era una costola di The Tree of Life, molto in comune ha invece Nimic con Il sacrificio del cervo sacro. Gli osservatori più attenti del sentiero artistico di Yorgos Lanthimos rintracceranno tutti le sue soluzioni registiche preferite, distorsioni date da grandangoli e fish-eye in primo luogo, ma anche campi lunghi e primi piani indagatori dell’introspezione. La lucidità della messa in scena diviene centrale in un racconto che sospende volutamente l’intreccio in un flusso sinuoso di scambi di ruolo e reiterazione. Il tema dell’eterno ritorno detta il ritmo del film assieme alla musica e alle azioni meccaniche dei personaggi, quasi come se fossero tutte componenti di un grottesco metronomo.
Ciò che Lanthimos fa è instaurare un tacito patto con lo spettatore, quest’ultimo accompagnato per mano ad abbandonarsi alla sovversione di consuetudini esistenziali e cinematografiche. Accettato di prender parte al provocatorio gioco di Nimic (“nulla” in rumeno), il pubblico dovrà lasciarsi sopraffare da quelle sensazioni di pericolosa instabilità che dalla notte dei tempi tengono vivo il fuoco delle paure umane più irrazionali e rettiliane. Ogni punto di riferimento viene messo in discussione e tutto diventa indistinguibile o intercambiabile.
La magia dell’inquietudine
Anche se la sensazione è quella del balocco cerebrale che gira a vuoto, sarebbe riduttivo sminuire la forte impronta sociale di Nimic, certamente un lavoro “minore” consacrato al collaudo di una già ottima costruzione di suspense soffocante di cui non va in alcun modo sottovalutato il potere satirico, significativo nella trattazione dei disagi moderni.