Omicidio tra i mormoni recensione docuserie Netflix di Jared Hess e Tyler Measom prodotta da BBC Studios
Bisogna attendere un po’ prima di stupirsi per davvero ed essere travolti come spettatori da quell’unico, incredibile, colpo di scena che cambia definitivamente le sorti dell’ultima docuserie firmata Netflix. Omicidio tra i mormoni infatti, pur allineandosi per tipo di narrazione e costruzione dialogica ad altri prodotti simili, non si pregia di quella capacità continuata di sconvolgere attraverso il susseguirsi costante di twist e rivelazioni predisposti a far sobbalzare dal proprio divano. Ma in quell’unica (conclusiva) volta in cui lo fa, spariglia le aspettative conquistando, inaspettatamente, l’attenzione e generando così ̶ come un documentario ampio nella sua motivazione iniziale dovrebbe prefiggersi ̶ l’apertura verso una personale riflessione sulla menzogna e la verità.
Salt Lake City, ottobre 1985
Diretto da Jared Hess e Tyler Measom, la serie in tre episodi ricostruisce la vicenda giuridica e storica dietro la catena di esplosioni causate da tre ordigni rudimentali, avvenute nell’ottobre del 1985 a Salt Lake City, nello Utah. Le prime due, più devastanti per brutalità, causarono la morte di Katy Sheets, moglie di Gary Sheets, a sua volta collega dell’altra vittima Steve Christensen, all’epoca dei fatti impegnato nella compravendita di antichi documenti legati alle origini della religione mormone. L’ultima detonazione invece, provocò (solo) il ferimento di Mark Hofmann, un commerciante di documenti noto nella comunità soprattutto per il ritrovamento della famigerata “lettera della salamandra”, un rarissimo reperto che confutava la versione originale della chiesa riguardo la sua origine sacra e angelica.
Nell’affermare infatti che a guidare Smith verso la scoperta de “Il Libro dei Mormoni”, il testo fondativo della cosiddetta Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, non era l’origine sacra o angelica, ma piuttosto riconducibile alla magia popolare, Hofmann con in mano quella ‘prova’, sconvolse l’intera comunità mormonica, causando (ovviamente) tentennamenti e dubbi nei fedeli. Il ritrovamento, e quello di altri scritti come la celebre collezione McLellin, aprirono le porte ad un’investigazione durata anni e conclusasi con un colpo di scena finale pronto a ribaltare le aspettative e le granitiche certezze dei protagonisti della vicenda.
La serie, prodotta tra gli altri da Joe Berlinger già creatore di Paradise Lost: The Child Murders at Robin Hood Hills, ricuce i fatti attraverso l’ormai oliato metodo narrativo dell’alternanza in montaggio di video d’epoca (inediti e non), testimonianze chiave e la ricostruzione fittizia di alcuni momenti raccontati direttamente da personaggi/protagonisti della vicenda fra i quali la (ormai ex) moglie di Hofmann Dorie Hofmann Olds e l’ex collega Shannon Flynn, qui entrambi nelle vesti di talking heads. Ma tolta di dosso la polvere ferma sulla (necessaria) rigidità di fatti, archivi, date e pezzi di notiziari (i Mormoni sono appassionati collezionisti) e una volta svelato il volto e il nome del reale colpevole, la serie si apre ad uno sconvolgente e intelligente ragionamento sulla falsificazione e sulla messa in discussione di credi religiosi pronti a vacillare da chi ha intenzione di metterli alla prova, per esaminarne così la reazione personale e collettiva.
Dopo una folta successione di investigazioni da parte della polizia di Salt Lake City, e un lavoro certosino sulla veridicità dei documenti ritrovati da Hofmann in uno dei suoi tanti viaggi di proselitismo, venne fuori infatti che quest’ultimo da vittima poteva facilmente diventare sospettato. È grazie a quest’accusa sbalorditiva che Omicidio tra i mormoni mostra allora il suo lato più conturbante.
Capace di eludere persino l’impeccabile attendibilità della macchina della verità, la vicenda e la psicologia, ancora oggi misteriosa di Hofmann, ci sbatte in faccia tutta una serie di nostri limiti sociali sul chi e cosa credere, riverberate dalle abilità innate dello stesso Hofmann, dotato, dobbiamo dirlo, di un’intelligenza fuori dalla norma e completamente autodidatta che per anni si prese gioco, non solo della comunità mormonica dalla quale proveniva, ma di colleghi, familiari e amici tutti.
La serie, nella sua parte conclusiva, si pregia allora di (di)mostrare un lato umano agghiacciante e pieno di oscurità, celato tra lo stanzino di un garage e il lavorio artigianale tenuto nascosto dietro la porta di una stanza off-limits dietro cui venivano tenuti arnesi, tecniche e manualità pronti a scompaginare e a farsi beffa di pilastri religiosi e relazioni umane. Un inganno nato dalla necessità di impressionare gli altri, per colmare probabilmente un vuoto d’infanzia o chissà, forse scaturito da una psiche lucidissima, consapevole e mai redenta sino all’ultimo processo giudiziario.
Sorpassando così la strada del crime percorsa nei primi due episodi e nella scelta sferzante d’imboccare la via dell’introspezione, Omicidio tra i mormoni raggiunge un disvelamento coinvolgente e riflessivo sui concetti di verità e simulazione, lasciandoci, nel chiudere un libro aperto tra le bombe, con una domanda: cos’è realmente la verità? Quello che effettivamente lo è, oppure quello che più semplicemente ne assume la definizione?