Oxygène recensione film Netflix di Alexandre Aja con Mélanie Laurent, Mathieu Amalric, Malik Zidi, Marc Saez e Eric Herson-Macarel
Conosco la nostra vita anche se non l’ho vissuta.
(Mélanie Laurent in Oxygène)
Con Oxygène Alexandre Aja (Crawl, Le colline hanno gli occhi, Piranha 3D) esorcizza lo spettro del (corona)virus e dell’essere rinchiusi in quarantena attraverso un survival movie con contaminazioni trapped e apocalittiche, con la protagonista Mélanie Laurent che si risveglia per l’appunto intrappolata all’interno di una capsula di criogenesi, mentre la vita sulla Terra si trova a due generazioni dalla fine a causa di un virus letale ed implacabile per il quale non esiste cura.
Figlio di questi nostri strani ed infelici tempi una volta inimmaginabili sulla nostra pelle, l’instant movie quasi interamente girato all’interno di una capsula per dormire da pod hotel sposa diversi generi costruendo la propria tensione attorno al passato, al futuro – di salvezza o di morte per asfissia per mancanza di ossigeno – e all’identità stessa della bioforma Omicron 267, la protagonista che conosciamo, attraverso una buona intuizione iniziale, avvolta in una crisalide come una larva che sta per giungere a nuova vita, che si schiude anzitempo per un guasto alla capsula con i gesti del viso, delle mani, delle dita che si rianimano ed iniziano a lottare contro il dolore e lo spettro della fine imminente.
Io sono te in una scatola.
(Mélanie Laurent in Oxygène)
Mentre Mélanie Laurent (Bastardi senza gloria, 6 Underground, Galveston) ci guarda intensamente in camera con i suoi profondi occhi verdi noi ci interroghiamo sulla natura, in realtà molto e anzitempo prevedibile, del suo personaggio, con il mistero a cedere rapidamente il passo dal chi e come al dove e perché, con l’interfaccia MILO (Medical Interface Leisure Operator), punto di contatto principale e unica porta verso il mondo esterno della protagonista, che si ostina ad impedire l’apertura della capsula condannando la donna a morte certa.
Oxygène diventa dunque rapidamente un gioco ad enigmi ed un duello vero e proprio tra la bioforma Omicron 267 e MILO (a cui nella versione originale presta la voce Mathieu Amalric), con la donna che cerca in ogni modo di superare i blocchi dell’intelligenza artificiale per conquistare la libertà.
MILO chi sono io? Come mi chiamo?
(Mélanie Laurent in Oxygène)
Tra puzzle ed enigmi che si intrecciano allo scorrere della narrazione, accompagnati da allucinazioni, crisi psicotiche da isolamento e tentativi di evasione poco riusciti ma soprattutto messi in scena in modo abbastanza misero e poco verosimile, dalla lacerazione della guaina di gomma alle scosse elettriche di contenimento, la salvezza non sembra passare dal concentrarsi sul respiro, sul controllo del proprio corpo e su ciò che è reale quanto sul trovare un modo per ridurre il consumo di energia della capsula per contenere la dispersione di ossigeno dovuta al danneggiamento dei sistemi.
In Oxygène la dimensione del mistero non riesce ad essere sostenuta dall’intreccio o da una tensione significativa, la soluzione narrativa più interessante è il percorso di riappropriazione della memoria da parte della protagonista avvolta nella nebbia dei ricordi dovuti all’ipersonno e al vuoto dentro dovuto alla mancanza di consapevolezza di sé, in una rilettura della pandemia che non si pone dilemmi etici né pone l’accento sulle conoscenze mediche avveniristiche di cui si fa portatore, come la teoria sulle emozioni, impulsi chimici che rappresentano reazioni alle esperienze e come tali possono essere conservate come memorie muscolari e trasformate in dati.
Una commistione di generi ambiziosa che attinge a numerosi spunti ma si rivela povera nella sue declinazioni, così come il finale incerto ed approssimativo che si chiude, proprio come il bozzolo della crisalide che avvolge la protagonista, in modo opposto a come si era invece schiuso l’interessante esordio.