Parthenope recensione film di Paolo Sorrentino con Celeste Dalla Porta, Stefania Sandrelli, Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri e Peppe Lanzetta
Parthenope indossa un anello a forma di sirena sull’anulare destro. Gli sguardi sono fissi su quella “dea” nata dalle acque, la Venere seducente nelle movenze e nella voce che attrae ogni uomo che incontra.
Tuttavia Parthenope non è né una sirena né una leggenda. Lei è la bellezza del suo essere donna ma soprattutto della Napoli velata. Misteriosa come il nome che porta, metafora ammaliatrice delle origini di Paolo Sorrentino.
Parthenope è La grande bellezza di Sorrentino: un fil rouge che attraversa prima Roma con Jep Gambardella (Toni Servillo), indifferente mentre passeggia tra cultura e mondanità nella Caput mundi grande e meravigliosa; poi Napoli con È stata la mano di Dio (2021), autobiografico e omaggio alla sua città natale. E infine ancora le origini napoletane, questa volta con una donna protagonista, simile a un alter-ego del regista partenopeo.
Sorrentino c’è e si vede. I primi piani, la sensualità femminile che irrompe sul grande schermo, la sceneggiatura fatta di dialoghi senza mezzi termini, l’ironia autoriale messa in bocca alla spontanea naturalezza di Silvio Orlando ‒ nel ruolo del professore Devoto Marotta ‒ con tanto di commenti incisivi. E poi la volontà di Dio, la religione che nasconde ogni forma di afflizione della carne e dello spirito, svelata dalla cinepresa che ormai sa che cosa riprendere senza timore delle conseguenze, come in The Young Pope (2016) e The New Pope (2020). C’è tutto. Eppure, l’impressione che si avverte è di smarrimento.
Parthenope disorienta nella messa in scena. La vera protagonista non è colei che prende il nome dal luogo in cui è nata. Parthenope è la metafora di Napoli a 360 gradi: ambizione, degradazione, piacere, depravazione, voluttuosa lussuria attraverso la vita di una donna-simbolo di Napoli.
Dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, Parthenope comunica per immagini: la potenza visiva è tale che a tratti non servono nemmeno le battute dei dialoghi. Le immagini scorrono da sole, hanno una forza propria. Non serve più nulla.
In Parthenope Sorrentino allunga lo sguardo e si specchia. Vede sé stesso in mezzo alla bellezza, la cultura, i party esclusivi, il desiderio smodato di rivalsa ‒ con un lungo discorso contro l’amata patria, addirittura ‒ e si ha la percezione di analizzare una dimensione altra. Come se alle immagini, nonostante tutto, mancasse qualcosa che non si riesce a vedere. Forse, è in questo che Parthenope rimane ancorata alla superficie dei frame: mostrano le tappe della vita di Parthenope ‒ Celeste Dalla Porta, bella e brava al suo esordio cinematografico ‒ ma rimangono sullo sfondo. Lì, dove gli occhi si fermano e non osano interrogarsi.
Al loro posto Sorrentino lascia spazio alla libertà, urlata nel corpo e nel pensiero, alla sua Napoli dipinta come un quadro azzurro sulle acque limpide e cristalline e ai mille volti dell’amore: inseguiti, avuti e respinti.
Sulla scia de La grande bellezza (2013), Parthenope diventa la pellicola dell’inafferrabile, dello splendore triste e malinconico della ragazza che tutti desiderano nella Napoli occulta, sospesa tra sogno e realtà, tra ricordi disillusi e frivoli. Un Amarcord sorrentiniano, che attraversa il dolore per ricominciare nel lungo scorrere del tempo, idealizzando, immaginando, vivendo in una dimensione altra ricreata sulla femminilità, perno del suo furore registico.
Parthenope non è la storia di un’eroina, è un qualcosa di più profondo che bisogna leggere tra le righe. Non disuniamoci!