Permanent Vacation recensione film di Jim Jarmusch con Chris Parker, Leila Gastil, John Lurie e Richard Boes in edizione restaurata
“Non voglio un lavoro, una casa, né pagare le tasse… anche se avere una macchina non mi dispiacerebbe.
Ora che sono andato via, desidero stare lì dov’ero, più di quando ci abitavo.
Diciamo che sono una specie di turista, un turista che è perennemente in vacanza.”(Chris Parker è Allie in Permanent Vacation)
Movies Inspired porta nelle sale italiane il restauro del primo film di Jim Jarmusch – un esordio prematuro e indipendente che mostra già gran parte della poetica e futura filmografia del cineasta e musicista statunitense.
1980, Jim Jarmusch è un giovanissimo sceneggiatore e filmmaker che ha recentemente conseguito il diploma in Cinema e Letteratura americana ed inglese alla New York University. È in classe con il leggendario Spike Lee e ha l’occasione di conoscere Nicholas Ray e Tom DiCillo, il quale poi diventerà il direttore della fotografia dei suoi esordi: Permanent Vacation (1980) e Stranger Than Paradise – Più strano del Paradiso (1984), vincitore del Camera d’or al Festival di Cannes del 1984. L’anno appena trascorso l’ha passato in Francia, studiando alla Cinémathèque di Parigi dove è entrato in contatto con film provenienti da qualsiasi parte del mondo, tanto da diventarne ossessionato.
E la “vacanza permanente” che decide di presentare come progetto di diploma la gira in 16mm, allungando la durata minima di quello che prima era un corto, portandolo a 80 minuti che rappresentano un andare alla deriva, un cammino costante (se vogliamo una sorta di road movie) con protagonista un giovane Chris Parker (Allie), un hipster che girovaga, quasi in tempo reale, tra le strade di New York.
Le location sono quelle tipiche del suo cinema, set minimalisti e lunghe sequenze quasi interminabili, statiche e con pochi tagli in fase di montaggio, che spesso finiscono con una dissolvenza a nero (fade to black).
È un cammino solitario e silenzioso, in quello che sembra essere una realtà forse futura ma post-atomica, scandito da musiche jazzeggianti, quasi un pellegrinaggio verso non si sa quale meta, ma dove è chiaro che fuggire è la soluzione migliore, un viaggio scandito da incontri occasionali per le strade e i vicoli della alienante e gigantesca metropoli – personaggi che sembrano vivere nella propria bolla, destinati ad incontrarsi con il protagonista per chissà quale motivo.
Ecco quindi il suicidio di un jazzista raccontato da un uomo di colore fuori da un cinema, l’incontro con un sassofonista che suona in completa solitudine, un ladro di auto, la madre malata di Alzheimer che non sembra riconoscerlo, uno spaventato reduce di guerra che vive in una casa bombardata, un’altrettanta spaventata, per meglio dire scioccata cantante spagnola. Anche il rapporto con la fidanzata, Gastil, va avanti per inerzia.
La mancanza di comunicazione e la solitudine (già vista in Taxi Driver di Martin Scorsese) sono la rappresentazione dell’America che il regista vive, in piena epoca post-punk.
È un cammino costellato di profonde riflessioni su quello che è la vita, ma più si parla e ci si confronta più Allie si sente solo, isolato, inadeguato alla vita che New York sembra offrirgli.
L’unica vera soluzione sembra allora quella di fare la valigia e partire per l’Europa, magari Parigi, per trovare la propria Babilonia (Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli orrori della terra) e iniziare una nuova vita.
Ma poco prima di salire sulla nave ecco apparire l’ultimo personaggio, che stranamente gli somiglia parecchio e che è appena sbarcato proprio dalla città francese in cerca di una nuova realtà in quel di New York – stesse città che se viste con punti di vista diversi sembrano acquistare una nuova faccia.
La mancanza di una direzione precisa, le estremità, i limiti, i margini della vita, il “cosa e il perché” delle scelte che le persone prendono durante il loro percorso terreno, sono questi i temi più cari a Jarmusch, fortemente legato ai semplici eventi della vita che spesso diamo per scontati, quella classe di eventi che ci capitano casualmente, che ci fanno vivere un’avventura improvvisa, per nulla contemplata.
Tutto ciò già lo si individua in questo debutto ma ancora in forma acerba, un’opera prima dai tempi dilatati e dall’atmosfera malinconica e seriosa, che ai tempi vinse il Josef von Sternberg Award all’International Filmfestival Mannheim-Heidelberg (Filmweek Mannheim).