Qualcuno volò sul nido del cuculo recensione del film di Miloš Forman con Jack Nicholson, Louise Fletcher, Christopher Lloyd, Danny DeVito, Brad Dourif, Will Sampson, Scatman Crothers e Michael Berryman
“Pazzi? Davvero? Invece no”
Antefatto
Correva l’anno 1960 quando Ken Kesey, un nerboruto venticinquenne campione di lotta di Springfield, prese parte, di sua spontanea volontà, allo studio sulle sostanze psicoattive finanziato dalla CIA. Tale studio, chiamato Progetto MK-ULTRA, aveva lo scopo di raffinare alcune tecniche durante gli interrogatori, indebolendo psicologicamente l’individuo mediante la somministrazione di droghe quali LSD, fenciclidina o scopolamina, o mediante l’uso di ipnosi, elettroshock, pressione sonora e sieri della vanità. Kesey, nello specifico, si concesse all’uso di DMT, LSD, mescalina e cocaina. Erano gli anni in cui la Beat Generation (Jack Kerouac ti voglio bene) si continuava spontaneamente nella cultura hippie e Ken Kesey venne considerato, in seguito al successo che lo investì, il trait d’union tra i due movimenti. Obnubilato a dovere come un beatnik doveva essere, Ken si fece assumere come factotum presso il nucleo psichiatrico dell’ospedale militare di Menlo Park, in California, allo scopo di tastare con mano quella che era la pazzia, senza farsi influenzare dagli stereotipi preconfezionati della società (quella realmente malata) di allora. Baluginato di pensieri frivoli e inebriato dall’effetto multiplo delle sostanze stupefacenti, si confrontò con i pazienti psichiatrici di quell’ospedale, con loro passò millanta giornate a discutere di ogni argomento possibile, e ne trasse la conclusione che la pazzia non albergava in loro: erano soltanto emarginati e rigettati da quella società (per questo definita prima malata) che non li considerava adatti ai costumi prestabiliti dalle istituzioni.
Da questa bellissima quanto difficoltosa esperienza, Ken Kesey trasse ispirazione per la stesura di Qualcuno volò sul nido del cuculo – One Flew Over the Cuckoo’s Nest, il suo epitaffio, un vero e proprio quadro devozionale della libertà e dello spirito umano, partorendo una vera e propria icona anticonformista, quella di Randle McMurphy, un esuberante spostato che viene internato in un ricovero psichiatrico per aver violentato una minorenne e depositario unico di un quesito curialesco: è realmente afflitto da problemi psichiatrici?
Da Kirk a Michael Douglas, fino a Milos Forman
Grandissimo attore e con un gran fiuto per gli affari cinematografici, Kirk Douglas, allora stella hollywoodiana al massimo splendore, adattò Qualcuno volò sul nido del cuculo a testo teatrale e lo portò in scena a Broadway. Credeva immensamente in quell’opera il grande Kirk, tanto che la presentò a varie case produttrici cinematografiche che, forse per l’ambientazione (un manicomio), forse per la criticità dell’argomento trattato (la malattia mentale), derubricarono a dilavato il romanzo e rispedirono al mittente l’idea. Ma Douglas non desistette: contattò inizialmente alcuni registi statunitensi (anche un giovanissimo Steven Spielberg) che declinarono l’offerta, così spedì una copia del romanzo a un regista cecoslovacco, Miloš Forman. Ma la Cecoslovacchia di allora, era il 1968, aveva ben altro a cui pensare: era tempo di primavera, della Primavera di Praga e della liberazione dal dominio sovietico. Difatti, Qualcuno volò sul nido del cuculo non arrivò mai nelle mani di Forman ma venne sequestrato dalle autorità ceche, e Kirk Douglas, rattrappito dalle continue delusioni connesse all’ambientazione cinematografica del romanzo, cedette tutti i diritti al figlio Michael, allora attore agli albori per le interpretazioni nel telefilm Le Strade di San Francisco.
Michael Douglas, che alla carriera di attore affiancava quella di produttore, riprese tra le mani il romanzo di Ken Kesey e, come fece il padre anni prima, propose il progetto a Miloš Forman. Nonostante la bravura conclamata del regista – sia nel girare corti e lungometraggi di matrice documentaristica, sia nel calarsi subito negli usi e nelle consuetudini di Hollywood – il progetto tardò a decollare: le cinque Majors di allora non credevano affatto nel progetto, sicché proposero un plafond irrisorio. Ma la svolta si ebbe quando Jack Nicholson accettò il ruolo di Randle McMurphy: il budget della United Artist (una Minors) quintuplicò, Ken Kesey venne ingaggiato per la sceneggiatura (che lui stesso poi definì pessima poiché, a differenza del libro, non trovò spazio la narrazione principale enunciata dal Grande Capo Bromden) e, finalmente (!), iniziarono le riprese del film.
Il Film: Qualcuno volò sul nido del cuculo
La pellicola ha vinto i cinque maggiori Oscar (miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice, migliore sceneggiatura non originale), ha consacrato Jack Nicholson come uno degli attori migliori di sempre, ha lanciato grandi attori quali Danny DeVito e Christopher Lloyd e, soprattutto, ha sdoganato un argomento tanto triste quanto delicato: la malattia mentale. Non la malattia mentale intesa come patologia, bensì tutti i risvolti culturali, etici, sociali e, oso dire, criminali che sono stati (e sono) perpetrati nei confronti di tutte quelle persone etichettate come matte. E’ stato il più grande errore della medicina premoderna (sempre troppo impegnata a cullarsi su se stessa) quello di non captare possibili alternative terapeutiche agli abusi farmacologici, all’elettroshock, alla coercizione fisica e psichiatrica, all’abuso fisico nei confronti di eventuali reazioni (più che comprensibili) dei pazienti psichiatrici, all’utilizzo sregolato (e criminale) della lobotomia e all’istituzione perniciosa ed esiziale dei manicomi. In Qualcuno volò sul nido del cuculo tutto ciò viene inquadrato e metaforizzato nel comportamento della Signora Ratched: non un essere umano ma un automa, non una caposala indulgente ma un essere corredato di sola intransigenza, rigore e legnosità, non empatica ma drasticamente rigida, non comprensiva ma distante (psicologicamente) dai suoi pazienti, non dialogo elucubrato ma ferree regole opinabili.
R.P. McMuprhy, interpretato da un mirabile Jack Nicholson, rappresenta invece tutte le voci discordanti che etichettavano quei luoghi, quei manicomi criminali, come stamberghe della disumanità, come cloache di empietà (lobotomia) ed efferate ingiustizie (accanimento terapeutico ed elettroshock); rappresenta le battaglie decennali di Franco Basaglia, Jean-Paul Sartre, Erving Goffman e Michel Foucault contro chi invece considerava quel tipo di medicina anche troppo all’avanguardia, un postmodernismo incoerente per natura (le violenze nei confronti degli essere umani), quando era tangibilmente prenuragica – con tanto di rispetto per le civiltà nuragiche, molto più sensibili di quelle attuali – e troppo impegnata a specchiarsi e definirsi imprescindibile; rappresenta l’anticonformismo per eccellenza, ossia la libertà, perché qualsiasi obbligo, imposizione, costrizione, coazione e sopraffazione non genera automatismi di emancipazione, ma subdole insensibilità sociali che di rimando si manifestano in crudeltà quali omofobia, xenofobia e razzismo.
In tal senso, la gita in barca organizzata e voluta da McMurphy è un barlume di libertà in mezzo a un mare di repressioni morali e coercizioni mediche. Seppur rappresenti l’unico volo pindarico di un film immerso in voli pindarici, questo frammento è l’essenza della pellicola, in cui si evince che gli ospiti di un manicomio criminale, per essere catechizzati su quelle che sono le reali attività di vita quotidiana (il basket, il baseball, le carte e, giustappunto, la pesca) non devono essere bollati necessariamente come malati e soggiogati da contradditori fittizi, abulici e confusionari, ma ersi al ruolo di compagni di squadra e di abili gregari guidati da una leadership inclusiva, rappresentata in questo caso dall’indomabile capitano McMurphy: “Ma credete veramente di essere pazzi? Davvero? Invece no, voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada, ve lo dico io!”.
Nel momento in cui una guardia portuale chiede al gruppo di qualificarsi, questi, su suggerimento divino di McMurphy, si fingono essere dei dotti, delle personalità importanti della medicina, “Dottor Scanlon, il famoso Dottor Scanlon”, personificando con grazia il ruolo a loro avverso. E lo fanno talmente bene che paiono realmente dei medici. Sicché, per creare un balenio di dignità in tali pazienti, non occorrevano necessariamente espiazioni fisiche o farmaci psicoattivi bensì la stimolazione della loro fantasia (la medicina per eccellenza della psiche di ognuno di noi), del carisma, coraggio, volontà, forza e linfa vitale – tutte cure metaforizzate nella persona di McMurphy – così da migliorarne l’(in)esistenza inerte corroborata, invece, dalla crudeltà silente e avversa della medicina (Miss Ratched).
Già, perché l’avversione nei confronti di un malato psichiatrico (o etichettato così) era (ed è) una becera forma autorizzata (e istituzionale) di razzismo. Un razzismo psichiatrico che con le sue piovre avanguardistiche ha perpetrato oscenità e crudeltà disumane come la morte di McMurphy (sia mentale con la lobotomia, che fisica con l’asfissia).
Uno degli aspetti migliori di Qualcuno volò sul nido del cuculo è l’interpretazione totalizzante di Jack Nicholson, uno dei pochi attori capaci di dare vita ai suoi personaggi e renderli conformi alle nostre vite, alla nostra quotidianità e ai suoi risvolti. Il suo R.P. McMurphy è sinonimo di libertà, anarchia, ribellione, autogratificazione, underground e anticonformismo rispetto alle regole sordide dell’establishment sociale e, in un certo senso, crea quell’appartenenza (in questo caso cinematografica) di cui tanto abbiamo bisogno in questi ultimi, bistrattati tempi, ove anche una figura ammirevole, pura e patriottica come quella di Liliana Segre viene calunniata e disonorata da persone che non sono altro che la prova tangibile di come, ahimè, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Franco Basaglia nel loro caso abbiano fallito.
Paolo S.