Queer recensione film di Luca Guadagnino con Daniel Craig, Drew Starkey, Lesley Manville, Jason Schwartzman e Henrique Zaga [Venezia 81]
Vi sono svariati parametri con cui è possibile passare al vaglio un prodotto audiovisivo nel tentativo di compierne una disamina, tuttavia, all’interno delle varie riviste o degli innumerevoli giornali online che si occupano della settima arte, difficilmente troverete tra i criteri di giudizio quello del ‘coraggio’.
Al contrario però, è proprio quest’ultimo una delle pochissime virtù realmente imprescindibili per riuscire a confezionare qualcosa che si avvicini al concetto di opera d’arte.
Difatti, non è certamente attraverso delle aleatorie unità di misura qualitative che è possibile assegnare la tanto agognata etichetta di ‘opera d’arte’. Diversamente da ciò che accade nello sport o in un’equazione matematica, nel caso del cinema si opera su terreni sensibilmente più precari, la cui morfologia risulta ostica se non impossibile da fotografare con oggettività (parola sempre pericolosa da utilizzare, in particolare in ambiti umanistici).
Il coraggio, tuttavia, è probabilmente uno dei rarissimi elementi la cui assenza è in grado da sola di denunciare apertamente la povertà espressiva di un prodotto e, nel caso del nuovo film di Guadagnino, a prescindere dalle considerazioni di natura critica, difficilmente si potrà recriminare al regista classe 1971 un’avarizia in termini di audacia emotiva.
Se Challengers appariva come l’affascinante dipinto di un panorama emotivo a cui Guadagnino guardava con fervida curiosità, Queer è di fatto un’operazione a cuore aperto, durante la quale le più intime inquietudini del regista di Chiamami col tuo nome (2017) emergono con elegante vigore.
Il regista questa volta, più che in passato, vuole volare alto, altissimo, e, al termine dei 135 minuti necessari a vedere i titoli di coda, la sensazione è che le ali del regista siciliano siano tutt’altro che di cera.
La trasposizione cinematografica di Queer, tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, raggiunge un livello di qualità e intimità tale da oscurare la stessa origine letteraria del progetto. Questa impressione è accentuata dalla straordinaria somiglianza tra i tormenti interiori del regista Luca Guadagnino e quelli del protagonista del romanzo autobiografico di Burroughs, scritto tra il 1951 e il 1953.
La sensazione, infatti, è che a questo giro il tanto criticato regista palermitano abbia deliberatamente lasciato da parte le esigenze del grande pubblico contemporaneo – a cui, soprattutto per quanto concerne la sua recente produzione, ha sempre prestato particolare attenzione – per confezionare un’opera coraggiosa, priva di reali compromessi dettati da tendenze o cicliche leggi di mercato.
Queer mette in scena una piacevole sfrontatezza, non soltanto sul piano contenutistico, ma anche e soprattutto a livello squisitamente formale: Guadagnino mischia sapientemente realtà e finzione, in un tripudio visivo capace di inghiottire lo spettatore, per poi rigettarlo direttamente all’interno della complessa e conturbante psicologia del suo protagonista.
Mai come in questo caso indaga un personaggio frangibile, indifeso, impreparato e disorientato di fronte al confronto con i suoi simili. In tal senso la scelta dell’interprete principale si rivela a dir poco puntuale: risulta sempre utile ricordare come sia stata proprio l’indubbia sensibilità interpretativa di Daniel Craig ad aver permesso alla saga di 007di compiere un considerevole salto in avanti in termini di profondità psicologica, donando al personaggio di Bond – sino ad allora relegato ad una composta imperturbabilità – un generoso ventaglio di sfumature emotive.
Ci troviamo dunque di fronte a quello che, all’interno di una filmografia iridescente, caratterizzata da una sconcertante pluralità di temi e registri espressivi, potremmo serenamente definire come il lavoro più personale e intimo di Guadagnino, i cui fascinosi tormenti divengono stavolta centro drammaturgico di un lungometraggio semplicemente splendido, le cui delicate sfumature, tuttavia, potrebbero risultare superflue o persino invisibili agli occhi della massa.