Qui rido io recensione film di Mario Martone con Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna, Antonia Truppo e Eduardo Scarpetta a Venezia 78
Mario Martone è indubbiamente uno degli autori più vivi e importanti del cinema italiano di oggi. La sua filmografia è vibrante e magmatica, intrisa di umori e superfici levigate ma scava a fondo e rivolge lo sguardo continuamente dietro di sé, in un processo incessante di ricerca e rielaborazione.
Viene dal teatro: e questo fattore incide anche non tanto sull’impianto delle sue storie (che vanno dall’intimismo alla platealità enfatica di Noi credevamo) quanto sul linguaggio e sul bisogno di continuare a studiare lo stesso tema, lo stesso campo, esondando dai limiti del minutaggio canonico di un film.
Probabilmente è proprio per questo che fin dai suoi esordi al cinema ha iniziato a costruire archi non narrativi ma di significato: partendo con Morte di un matematico napoletano, inizio di una trilogia napoletana conclusasi subito dopo con L’amore molesto e Teatro di guerra, e continuando con Noi credevamo, Il giovane favoloso e Capri-Revolution, tre film che facevano coincidere la storia con la letteratura.
Al Lido nel 2019 ha portato la sua splendida riduzione di Il sindaco del Rione Sanità; e non si può notare allora che la ricognizione sul teatro partenopeo continua con lo straordinario Qui rido io, in concorso a Venezia 78.
Al culmine del successo, Eduardo Scarpetta, uomo di umili origini diventato ricchissimo con le sue commedia (Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi tra le altre), vive tra le molteplici amanti e i figli legittimi e non; la sua vita sembra andare in frantumi quando però, dopo aver portato nel suo teatro senza successo la parodia de La figlia di Iorio -dall’originale di Gabriele D’Annunzio, all’epoca il maggior poeta italiano -, lo stesso vate intenta una causa per plagio. Questo processo interminabile sarà l’inizio dello studio giurisprudenziale in Italia sul diritto d’autore.
Qui rido io non è solo la massima unione tra il cinema e il teatro di Martone, fatti entrambi di contaminazioni di linguaggio, innovazioni e devozione ai classici; ma è anche probabilmente una delle vette più alte raggiunte dal regista. Lunghissima ma senza un attimo di cedimento, recitata in maniera impeccabile, sfarzosa ma mai pletorica, impregnata di arte e storia, l’opera numero dieci di Mario Martone è, forse prima di tutto, un monumento al magistero interpretativo di Toni Servillo, qui realmente gigantesco, capace di passare dalla gioia al dolore rendendo lo sguardo leggermente più obliquo, misurato e smisurato.
E c’è anche la commistione, sempre pulsante, di arte e vita, tra realtà e finzione, con tante sequenze di sospesa incredulità emotiva: c’è il conflitto eterno tra impegno e comicità, ci sono vaghe suggestioni su come l’idea politica sia parte costituente del processo creativo, ci sono i colori della Belle Époque che però non impediscono che l’occhio del regista scorrazzi libero dentro Napoli rendendola quanto mai presente.
La complicata dinastia Scarpetta – De Filippo diventa allora l’ennesimo, bellissimo pretesto per guardarsi dietro e dentro, legando con un filo rosso sempre più evidente passato e presente.