Rapito recensione film di Marco Bellocchio con Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese, Filippo Timi e Fabrizio Gifuni
Quando la Chiesa interviene, il governo tace. Se c’è di mezzo la religione, la famiglia obbedisce. Dio è ovunque, Dio è dappertutto, in cielo e in terra. Non c’è regola statale per la parola di Dio.
Abbasso il dominio di Papa Re Pio IX. Si legge questo in un frame di Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio liberamente ispirato a Il caso Mortara di Daniele Scalise presentato alla 76ª edizione del Festival di Cannes. Nel 1858 Papa Pio IX era il re dei cristiani, il pastore assoluto a cui il popolo italiano mostrava profonda devozione. Ogni sua parola era legge divina. Tanto che proprio in quell’anno la sua potente autorità bussa alla porta della famiglia Mortara. Ebrea, di origine e di credo religioso. L’ordine è quello di portare via il piccolo Edgardo Mortara di appena sei anni e impartirgli un’educazione cattolica. A nulla serve opporsi: il bambino quando era ancora in fasce aveva ricevuto di nascosto il battesimo. Edgardo è quindi un bambino cristiano e deve vivere con loro. Il caso esplode a Bologna, tra lacrime e disperazione. Ma cos’altro può fare una famiglia afflitta se non rivolgersi alla comunità ebraica romana fedelissima al Papa?
Passano gli anni. La vita continua. Edgardo pensava che se avesse fatto il bravo sarebbe tornato a casa. A patto che la famiglia si fosse convertita. Il bambino comincia a metabolizzare i principi cristiani, a imparare le preghiere in latino, a “dimenticare” quelle ebraiche e a sposare il Dio cattolico. La famiglia originaria diventa un lontano ricordo. La sua “nuova” famiglia lo accoglie, lo istruisce, lo forma. Rapito è un coming of age tutto all’italiana, se così si può definire. Ma rapito è una parola chiave, di grande senso psicologico: il rapimento, l’essere strappato dalla famiglia, trascina azioni e reazioni sopite, rabbia repressa, anche e soprattutto nei vent’anni seguenti trascorsi tra messe, omelie e insegnamenti clericali.
Bellocchio conduce un’indagine religiosa e psicanalitica, in piena cifra stilistica: visioni oniriche – una bellissima sequenza in chiaroscuro ambientata in Chiesa mette i brividi – la croce, metafora simbolo cara anche a Esterno Notte (2022). E la dimensione privata, dalla solida componente psicanalitica appunto, e quella politica che “viene fuori da sola, quando vado nell’intimo di certi personaggi”, come rivela Bellocchio stesso. Diversamente da Esterno Notte con il caso Moro raccontato da più punti di vista, è la storia vera a narrare Rapito, nei fatti così come sono accaduti. Con la breccia di Porta Pia nel 1870, la caduta dello Stato Pontificio, la rivoluzione in casa Mortara, la conversione come nuova sorgente di vita e il finale struggente nel forte bisogno di spiritualità.
La presenza di Dio è costante. In ogni inquadratura, tanto nella dottrina ebraica quanto in quella cattolica. In Edgardo piccolo (Enea Sala) e adulto (Leonardo Maltese). In ogni scena mistica costruita su dialoghi scritti da Marco Bellocchio e Susanna Nicchiarelli (Chiara, 2022). Tuttavia il modus operandi registico non si schiera contro il dogma cristiano. Piuttosto mette in discussione l’istituzione religiosa stessa. Rapito colpisce, arriva dritto al cuore, e ci mostra un fatto di cronaca reale che ha scardinato il potere ecclesiastico. Bisogna aspettare la parte finale per capire se ci sono vincitori o sconfitti, anche se tende più a simpatizzare per una visione finzionalizzata della costruzione dialogica.