Red Moon Tide recensione film di Lois Patiño con Rubio de Camelle, Ana Marra, Pilar Rodlos, Carmen Martínez, Ana González e Pilar Rodríguez
Prima della scoperta dell’America, la costa galiziana era l’ultimo avamposto di civiltà, terra che si specchiava nell’infinito dell’Atlantico. Legame profondo rimasto nel popolo di quelle terre e che il regista Lois Patiño, indigeno galiziano, continua ad esplorare. Dopo il successo del film di debutto Costa da Morte, anch’esso ambientato nella sua terra natia, arriva alla XIX edizione del Ravenna Nightmare Film Festival con Red Moon Tide.
Il misterioso vicino che da sempre ha bagnato le coste iberiche ha creato miti e leggende, tramandati di generazione in generazione; creando affascinanti storie pronte ad essere esplorate. In Red Moon Tide, in un piccolo villaggio di pescatori della Galizia, il tempo sembra essersi fermato. Non solo il tempo, tutto sembra paralizzato, tranne la natura; mossa dall’inesorabile forza dell’Atlantico. Sentiamo però delle voci: parlano di mostri, fantasmi e streghe. Rubio è sparito e nel limbo tra vita e morte ci troviamo a vagare per i paesaggi alla sua ricerca. Tante vite ha salvato dalla ferocia del mare ed ora è scomparso.
L’oceano dona e toglie, reclama corpi, come fossero merce di scambio in un macabro equilibrio naturale. Una roccia diventa santuario, venerata e minacciosa, come la luna che dà il titolo al film e regala le più suggestive scene. Simboli che riempiono lo schermo e inondano la sceneggiatura. Una sceneggiatura non semplice da decifrare, sussurrata, che si muove invisibile come i fantasmi dei pescatori perduti; ancora memorie vivide nei pensieri del villaggio. All’interno della narrazione però, è la parte visiva ad essere sviluppata prepotentemente dal regista.
In un continuo tentativo di sperimentare il limite visivo del cinema, Lois Patiño porta sullo schermo lo spazio. Paesaggi esteticamente mozzafiato, alla ricerca della relazione tra mitologia e natura. Atmosfere fortemente introspettive, al limite dell’esasperazione, con inquadrature allungate volutamente più del loro naturale tempo scenico. Scelta sicuramente affascinante ma ad un certo punto visivamente estenuante. Campi lunghi enigmatici, con la natura che prende il sopravvento sull’uomo, oramai semplice figura paralizzata nel tempo e nello spazio.
Aiutato da una fotografia di altissimo livello, il regista come uno stregone riesce ad attirare lo spettatore in questo mondo sospeso tra finzione e realtà. Un film sull’invisibile, su ciò che si sente e non si vede. Sussurrato nell’intimità lasciando ampio spazio all’interpretazione dello spettatore; che deve volontariamente diventare parte attiva di questa ricerca. Lois Patiño cerca di unire due linee, una formale basata sul linguaggio del cinema ed una più tematica, basata sul folclore e la mitologia. Non sempre queste linee viaggiano intrecciate, ogni tanto si allontanano per poi ritrovarsi nel finale.