Rocco e i suoi fratelli recensione film di Luchino Visconti con Alain Delon, Renato Salvatori, Annie Girardot, Claudia Cardinale e Katina Paxinou
Il 1960 è, senza dubbio, l’anno che ha fatto conoscere il cinema italiano in tutto il mondo. Bastano pochi titoli – tre – per dar prova di questa affermazione. La dolce vita di Federico Fellini, L’avventura di Michelangelo Antonioni e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Proprio quest’ultimo, fra i molteplici temi che tratta, propone quello dell’integrazione, ancora oggi estremamente attuale.
La trama del capolavoro viscontiano è quella di una famiglia originaria dell’Italia
meridionale che si trasferisce al nord in cerca di lavoro, a Milano. Fra le varie vicissitudini, i due fratelli Rocco (Alain Delon) e Simone (Renato Salvatori) entrano in conflitto per Nadia (Annie Girardot), una prostituta di cui entrambi si erano invaghiti.
Rocco e i suoi fratelli: nostalgia della sofferenza?
Entrando subito nel nocciolo della questione è doveroso sottolineare come l’opera sia un omaggio a Rocco Scotellato: poeta meridionalista che, proprio come il personaggio in scena, non riesce a staccarsi dalla sua terra madre. Al contrario di ciò che sosterrebbe l’immaginario collettivo, la nostalgia dei meridionali della loro quotidianità per la terra originaria è piuttosto circoscritta. Infatti “meglio arrangiarsi a Milano che patire nella madre terra” non è una citazione casuale, ma il film in questo non prende posizione, anzi lascia aperta ogni porta attraverso il personaggio del piccolo Luca (Rocco Vidolazzi), di un possibile ritorno alla terra di origine. Lo fa, però, sapendo che si tratta più di utopia che di realtà: gli immigrati meridionali a Milano, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, sognavano tutto fuorché tornare al sud. Le parole di Vincenzo lo confermano: “io de torna laggiù non tengo proprio voglia”.
Ma c’è un rovescio della medaglia rappresentato ad hoc dal personaggio di Simone. Egli, infatti, non solo non si integra ma rinnega la possibilità di farlo. L’impatto con la città moderna, abituata all’abbondanza ed al massiccio consumo non fa per lui, ancorato a ciò che potremmo definire lo scoglio-sperone su cui è nato. L’illusione di poter vivere una vita migliore non lo consola se non può sentirsi a casa. Non c’è un giusto o un sbagliato, è una questione di cuore e di valori. A 71 anni di distanza, il film è più che mai attuale forse con qualche leggera differenza: sembra molto più chiaro che la nostalgia meridionale è ridotta ai minimi termini, ma comunque colmata nei periodi estivi, periodo in cui la maggior parte di loro fa ritorno a casa. Ma oltre a questo dovrebbe quasi esser fatto un aggiornamento della pellicola: oggi infatti gli immigrati non sono più i meridionali ma gli extracomunitari, molto spesso in fuga dalla loro terra madre diventato territorio di guerra. Ed anche se con grande dolore va ammessa un’ulteriore differenza fra le due tipologie di immigrazioni: come si può evincere nel film, la prima è accettata più che favorevolmente dalla società, mentre non si può dire lo stesso per quella di oggi.
L’eccesso del consumo come malessere
Come accennato in precedenza, l’impatto più traumatico per la famiglia Parondi nel suo arrivo a Milano è quello con la modernità e col consumo. Una città che trabocca di tram, traffico, luci ed è in continua evoluzione, proprio come oggi. Il dramma in particolare di Simone nasce proprio con la sua continua tentazione di consumo, così per colmare la distanza fra sé e gli oggetti del suo desiderio ricorre sistematicamente al furto.
Inizialmente, ruba la camicia in tintoria, poi la preziosa spilla della vedova Donini (Suzy Delair) e così via. In questo circolo vizioso Luchino Visconti dipinge i meccanismi di fondo della società del tempo non troppo dissimili da quelli di oggi e lo fa aggiungendo anche il dramma anormale di Rocco: personaggio con una differente reattività emotiva di fronte alle sirene della modernità. Egli, infatti, risulta immune al desiderio ed insensibile ai richiami del consumo.