Rossosperanza recensione film di Annarita Zambrano con Margherita Morellini, Leonardo Giuliani, Ludovica Rubino, Andrea Sartoretti e Luca Varone
Presentato in anteprima al 76° Festival del Cinema di Locarno, Rossosperanza è il nuovo film di Annarita Zambrano.
Prodotto da Mad Entertainment e distribuito da Fandango, è un dramma dai tratti fortemente autoriali, con un cast in larga parte molto giovane composto da Margherita Morellini, Leonardo Giuliani, Ludovica Rubino, Luca Varone, Daniela Morra e Andrea Sartoretti.
Roma, anni ’90. A Villa Bianca, una lussuosa clinica di riabilitazione frequentata da ragazzi con le più svariate problematiche, s’intrecciano le vicende dei giovani Zena (Margherita Morellini), Alfonso (Leonardo Giuliani), Marzia (Ludovica Rubino) e Vittoriano (Luca Varone).
Ricoverati nella struttura per aver infranto la legge, i quattro instaurano un’amicizia forte e squisitamente trasgressiva, sullo sfondo di un’Italia incapace di comprendere le difficoltà di una generazione nata – a quanto pare – già perduta.
Lo sforzo di essere arance non meccaniche
Che Zambrano non si sia lasciata influenzare da Arancia meccanica di Stanley Kubrick è abbastanza improbabile. Le storie parallele di giovani vittime del richiamo di una certa ultraviolenza nonché di una società di padri freddi e indifferenti, costituiscono l’evidente fil rouge che lega il capolavoro di Kubrick al film della regista romana.
Oltre questo, si collocano le rinomate strutture cliniche di correzione ed il loro tentativo molesto di correggere le nuove generazioni. I sottovalutati anni ’90 italiani di questa storia presentano in effetti toni e inquietudini non così dissimili dall’atmosfera londinese di Arancia meccanica.
Senza però scomodare eccessivamente una delle più grandi pellicole del ‘900, è innegabile affermare che il film condivide il tentativo di una precisa disamina socio-culturale in cui i ruoli di vittime e carnefici tendono il più delle volte a confondersi. Ad esempio, il leggendario Alex de Large da criminale efferato diventa pian piano vittima di un sistema che comincia a intervenire letteralmente sul suo cervello; la famigerata “cura Ludovico” inibisce infatti le sue manie di violenza ma ad un costo altissimo: la privazione totale della sua libertà di pensiero.
L’impossibilità di scegliere, dunque, lo rende as queer as a clock-work orange; qualcosa che sembra umano soltanto all’apparenza e che è, invece, in tutto e per tutto un essere meccanico.
E da qui la parola chiave di Rossosperanza, in grado di rovesciare il discorso del suo modello di riferimento prefigurando una ribellione. Pur essendoci una sorta di “cura Ludovico” molto meno invasiva e più superficiale – metafora forse di una negligenza tutta italiana verso i suoi giovani più scapestrati – i quattro protagonisti, una su tutti la magnetica Zena, riescono abbastanza facilmente a raggirare la cura usando come antidoto un’inedita fratellanza.
Un legame del tutto diverso e anche meno intenso di quello che unisce gli schizofrenici Drughi filmati da Kubrick, ma che comunque rappresenta il principale punto di forza.
Un’arma, insomma, che a determinate condizioni potrebbe tramutarsi in vera e propria bomba a orologeria dell’intera narrazione.
Un’inconcludente rapsodia visiva
Sfortunatamente, l’amicizia che si sviluppa tra i protagonisti si limita a una ripetitiva enfatizzazione di concetti esposti fin dalle prime scene: le generazioni passate appaiono eccessivamente datate, il loro moralismo risulta insopportabile e sembrano meritare senza dubbio una punizione, possibilmente la più severa tra tutte.
Percorrendo questi binari, il film si concentra oltremodo su una chiave di lettura di certo esaltante nelle prime battute ma che poi si sgonfia rapidamente in intrecci sempre più esili e randomici.
La sceneggiatura, curata dalla stessa regista, prova a mettere una pezza nelle sezioni centrali del film attraverso alcuni flashback, ma il risultato è un brodo allungato di scene pulp e superflui didascalismi.
Si badi bene, in Rossosperanza non tutto è da criticare. Meritano attenzione le prove sorprendenti dei quattro protagonisti, tutti capaci di creare un’indiscussa alchimia dal sapore disturbante.
Eccellente il lavoro compiuto dai tecnici del trucco e della scenografia: le suggestive ambientazioni e i costumi accuratamente studiati consentono al pubblico di immergersi agevolmente in un decennio spesso trascurato dal cinema italiano, ossia i ribelli e turbolenti anni ’90, a lungo tenuti nascosti nell’ombra del “buon gusto” predominante, che in parte perdura ancora, nel nostro Paese.
Nel complesso dunque il film di Zambrano è un prodotto autoriale che, pur non pensato nel miglior modo possibile, presenta una sua ragion d’essere negli aspetti più marcatamente visivi. Per quanto riguarda la scorrevolezza della narrazione e l’efficacia di specifici contenuti, il tocco dalla regista romana può – e deve – essere più incisivo.