Saint Omer recensione film di Alice Diop con Kayije Kagame, Guslagie Malanda, Valérie Dréville, Aurélia Petit, Xavier Maly e Salimata Kamaté
Saint Omer non è semplicemente un film di finzione. È il risultato dell’incontro della sensibilità e della formazione documentaristica di Alice Diop con un fatto di cronaca infilatosi sotto pelle. Il processo per l’uccisione da parte di Laurence Coly (Guslagie Malanda) della figlia di appena 15 mesi senza nessun motivo anche lontanamente valido attira i dubbi e le attenzioni di Rama (Kayije Kagame), alter ego della regista alle prese con una gravidanza.
Questo però non dà vita ad una ricostruzione finzionale in stile L’accusa, per rimanere in tema Mostra del Cinema di Venezia, ma ad un teatro civile filmato in cui la regista francese mette in scena filologicamente il procedimento svoltosi realmente nel 2016 in Francia. Le transizioni di montaggio sono ridotte all’osso, per lasciar esprimere chiunque sia presente nell’aula attraverso lunghi piani sequenza con delle inquadrature fisse e silenziose. Aleggia una sacralità strana nel luogo che ospita il tentativo di comprendere come una donna possa giungere all’infanticidio.
Al banco degli imputati, dietro gli scranni della corte, in mezzo al pubblico serpeggia un rigoroso rispetto della tragedia che Alice Diop restituisce in toto, senza sacrificare nemmeno l’estrazione a sorte della giuria chiamata a concorrere al verdetto. Per due lunghissime ore è necessario entrare in aula e trovare il proprio posto vicino a Rama–Alice. Non si può distinguere quando la finzione diventi realtà o avvenga il contrario. La catarsi arriva soltanto per quelli che si sono seduti e rimasti fino alla fine.
La giustizia che rivendica Saint Omer con la sua estetica asciutta e minimale è quella dei corpi che non hanno voce nel marasma di un’agenda informativa che spesso li riduce a fatti e nominativi. Laurence Coly ridiventa donna senziente e espressiva, capace di andare oltre la patina sensazionalistica riavvicinando lo spettare ad una dimensione misteriosa, non esente da pericoli e dolore ma non per questo non meritevole di essere restituita nella sua interezza.
Saint Omer è un film profondamente complesso, che affida a un’estetica opaca il compito di svolgere con perizia un processo giuridico e interiore dagli esiti estremamente personali. C’è chi ci mette una vita o a chi non ne basta una intera per farlo, ma il risultato non può lasciare indifferenti.