Saturday Fiction recensione del film di Ye Lou con Gong Li, Mark Chao, Joe Odagiri, Pascal Greggory, Tom Wlaschiha, Huang Xiangli
Sembra che uno dei fil rouge – che come sempre si rintracciano durante il Festival di Venezia e che tastano il polso su dove si stia posando lo sguardo del cinema più contemporaneo e attuale – sia la rilettura del passato attraverso i filtri del presente: dall’Olocausto di The Painted Bird alla Napoli di De Filippo de Il sindaco del Rione Sanità, dall’Italia di inizio Novecento di Martin Eden ai Panama Papers di The Laundromat, fino a The Perfect Candidate, Ema, La mafia non è più quella di una volta, questo cinema di fine anni Dieci si interroga sul passato comune, recente o meno, e ne offre una chiave di lettura più o meno personale svelando più di quanto si possa pensare sulle urgenze di oggi.
È così per Saturday Fiction, l’affascinante spy story ambientata a Shangai di quel Lou Ye appartenente alla cosiddetta Sesta Generazione dei registi cinesi che in netta rottura con una tradizione cinefila seguono percorsi urbani e contemporanei. La storia è quella di Jean Yu, attrice che ritorna a Shangai durante l’occupazione cinese e che ritrova non solo l’ex amante ma anche colui che le fece da padre adottivo, immersa in una ingarbugliata storia di spionaggio alla ricerca di codici per decrittare informazioni preziose.
Non è difficile capire, dalla sua filmografia e fin dall’incipit di questo Lan xin da Ju yuan (titolo originale del film), che la narrazione si dipana interrogandosi sul senso del doppio, dell’identità e dell’inestricabile matassa che avvince insieme verità e menzogna e vita e finzione, partendo dalla metafora più limpida e abusata, la messa in scena cinematografica e teatrale. Dal Vertigo hitchcockiano in poi, non sono pochi i registi che hanno affrontato il tema: mettendo in luce i meccanismi basilari di difesa che attraverso la scissione e la proiezione producono il Doppio ed eludono l’angoscia. All’origine c’è il pensiero o l’azione illecita che covano nel profondo generando e moltiplicando i sensi di colpa e i conflitti insanabili, per dilagare poi con i lati rinnegati e sconfessati di sé stessi. I problemi sorgono sempre, narrativamente e psicoanaliticamente, al ritorno del rimosso: le parti scisse si riaffacciano alla coscienza e il Doppio pretende la reintegrazione dell’Io.
Tutto questo coté intimo si riversa nella protagonista principale, la straordinaria Gong Li che a cinquant’anni sembra aver trovato il siero della giovinezza: Jean è Gong, Gong è Jean, ma Jean è anche Miyoko, Jean è anche Quin Yu: perché fa l’attrice, la professione doppia per antonomasia, e fa anche la spia in una missione che si intitola, guarda caso, Falso Specchio. La sua identità è come frantumata in mille rivoli, solo il flash delle fotografie sembra a tratti illuminare una storia buia, risvegliarla e riportare alla luce rimorso e rimosso nella maniera più pericolosa possibile, mentre i giapponesi la inseguono così come la insegue il suo ex amante e regista della pièce teatrale che riporta in scena, Saturday Fiction appunto: se il Doppio è la prerogativa di ogni spia, per Jean la cosa è doppiamente vera quando rivede il suo primo marito e il padre adottivo…
È un fiume narrativo in piena, Saturday Fiction – Lan xin da ju yuan: intricato come ogni mistery che si rispetti, confonde le acque mettendo subito in chiaro che l’avventura si svolge su un set. Ma il set è reale anche all’interno del film, e tutto si confonde e si attorciglia su sé stesso sostituendo il senso logico alla pura azione. Lou Ye non rinuncia a nulla di cliché del genere: ma il suo percorso è così sincero, e così misterico, che gli si perdona tutto nel momento in cui si tenta di penetrare nel labirinto iniziatico di una storia che è vera e falsa, legandosi le diverse trame alla Storia ufficiale di Shangai, che proprio nel 1941 vide gli insediamenti internazionali occupati dai giapponesi. È finzione, allora, ma non lo è: è un falso specchio, ed è inutile ricercare la nostra immagine, quello che potremmo trovare è solo l’immagine di noi che abbiamo perso.
Gianlorenzo